(di Milena Gabanelli e Andrea Priante – corriere.it) – È in corso una epidemia silenziosa che si lascia dietro danni socio-economici che, su scala globale, superano i 423 miliardi di dollari all’anno. E un rapporto di Invacost stima solo in Italia, dal 1990 a oggi, costi per 704 milioni di euro. È quella delle specie «aliene»: animali, piante o microorganismi introdotti dall’attività umana in zone che non avrebbero potuto raggiungere autonomamente. L’ultima segnalazione è recentissima: per la prima volta in acque italiane è stata accertata la presenza di un’alga originaria del Pacifico, molto pericolosa per l’ambiente marino.
I numeri dell’invasione
La Piattaforma intergovernativa sulle biodiversità promossa dalle Nazioni Unite (Ipbes) conta almeno 37mila specie «esotiche» che si sono diffuse in tutto il mondo, al ritmo di 200 nuove specie all’anno. Di queste, 3.500 (1.061 piante, 1.852 invertebrati, 461 vertebrati, e 141 microbi) sono invasive, cioè causano danni all’ecosistema, alle coltivazioni, alle infrastrutture. Ma anche sanitari: uno studio dell’Università di Milano e del Royal Veterinary College britannico dice che il 60% delle malattie infettive emergenti (comprese ebola e covid) vengono trasmesse all’uomo da altri animali: «Il ruolo delle specie alloctone (aliene, ndr) quali agenti promotori dell’insorgenza di nuove infezioni – denunciano i ricercatori – è stato finora largamente sottovalutato».
In Italia, spiegano dall’Ispra, sono presenti 3.500 specie aliene, 1.935 delle quali sono da considerarsi ormai «stabilizzate». Quelle invasive sono 489, il 14%. E il loro numero cresce con una media di 16 nuove specie l’anno.
Dalla nutria al granchio blu
Qualche esempio, tra i più pericolosi. A cominciare proprio dall’ultima arrivata: la rugulopteryx okamurae, l’alga originaria del Pacifico. Gli esperti hanno comunicato l’8 novembre all’Ispra la sua presenza nel golfo di Palermo, dopo che in Francia era stata segnalata già nel 2002. Particolarmente competitiva, potrebbe creare dei «tappeti» densissimi e sostituirsi alle alghe autoctone, con conseguenze anche per i pescatori che si ritroverebbero le reti intasate.
Ma la specie aliena che causa i danni più evidenti nel nostro Paese, è la nutria. Gli esemplari, importati negli anni Venti in Piemonte per la produzione di pellicce, in seguito fuggiti dagli allevamenti si sono moltiplicati e oggi si stima siano oltre un milione. Nutrendosi di germogli distruggono i raccolti, e scavano gallerie lungo i canali fino a fare crollare gli argini. Considerata in passato specie protetta, dal 2014 la nutria è nella lista di quelle nocive e quindi andrebbe abbattuta. Stando al piano di gestione adottato nel 2021 dal Ministero dell’ambiente, è ormai presente in 85 province italiane, ma ben 37 non hanno alcun piano di controllo, nonostante la legge lo imponga. Si parla molto del granchio blu: originario delle coste americane, è stato introdotto con le acque di zavorra delle navi. Avvistato in Italia per la prima volta nel 1949, si ciba anche di cozze e vongole. L’allarme lanciato anni fa dai ricercatori sulla sua pericolosità è sempre stato ignorato, col risultato che il problema è esploso a maggio di quest’anno mettendo in crisi gli allevatori di molluschi. Governo e Regioni hanno appena stanziato 12,9 milioni tra ristori e sostegni alle aziende colpite. Ma Fedagripesca stima che il danno abbia già raggiunto i 100 milioni.
Le formiche di fuoco
Recente è pure l’allarme per le formiche di fuoco: originarie del Sud America e arrivate con le piante d’importazione, hanno fatto la loro comparsa in Sicilia. Sono pericolose anche per l’uomo: somministrano un veleno che causa ustioni e shock anafilattico. I nidi vanno distrutti subito (eliminare quelli individuati nel Siracusano costerebbe almeno 2 milioni di euro), perché in città come Roma, Barcellona e Parigi troverebbero condizioni ambientali adatte al loro insediamento, con conseguenze disastrose. Basti pensare che in California, che non è molto più grande dell’Italia, le formiche di fuoco sono arrivate da un nido del Texas nel 1997 e in dieci anni hanno causato danni per 850 milioni di dollari.
L’infestazione di ambrosia
Ma la minaccia può arrivare anche dalle piante. L’ambrosia – i cui semi sono giunti dal Nord America nelle navi cariche di granaglie per uccelli – ha ormai infestato tutto il Paese. Sembra innocua, ma il polline è altamente allergenico e causa congiuntiviti, riniti e asma. In un anno, la sola Asl di Milano ha stimato una spesa sanitaria di 1,7 milioni di euro. In Svizzera è stata arrestata in tempo a seguito dell’obbligo di segnalazione e disinfestazione.
Le contromisure
Alcuni alieni sono più pericolosi di altri. Per questo c’è un regolamento europeo che finora ha individuato 88 specie (definite di rilevanza Unionale) per le quali è stato introdotto il divieto di commercio, possesso, trasporto e introduzione in natura. Dalla rana toro al gambero rosso della Luisiana, passando ovviamente per la nutria, in Italia ne sono già presenti 47. E ora, con l’arrivo della “nuova” alga, l’elenco salirà a 48. A tutti i Paesi membri, Bruxelles impone di monitorare ed eradicare, ma non sempre, e non tutti lo fanno. E infatti a gennaio la Commissione europea ha deferito alla Corte di Giustizia Italia, Bulgaria, Irlanda, Grecia, Lettonia e Portogallo, proprio per la mancata attuazione di alcune delle disposizioni previste.
Cosa sta facendo l’Italia
È chiaro che comunque con questi spiccioli non si va da nessuna parte. Giusto per dare un’idea: la Regione Veneto recentemente ha stanziato 200 mila euro per pagare i cacciatori di nutrie. Il problema è che le nutrie si riproducono molto più velocemente della capacità di cattura.
Che le risorse son poche se n’è accorto anche il Ministero dell’Ambiente che nel 2022 ha deciso di trasferire in un apposito «Fondo per il controllo delle specie esotiche invasive» 5 milioni di euro l’anno fino al 2024. I fondi sono destinati esclusivamente ad azioni concrete (eradicazione o controllo e non a studi o monitoraggi) ma dopo averli incassati non tutte le Regioni li hanno ancora spesi.
Ci viene in soccorso anche l’Europa con i progetti Life focalizzati in buona parte proprio sugli esemplari alieni, per un budget complessivo di 75.703.475 euro di cui 41.397.090 di co-finanziamento Ue. I 34 milioni che mancano sono a carico delle Università ed enti di ricerca, solo di rado partecipano Regioni e Province. Di interventi ne sono stati fatti molti e alcuni sono considerati un successo, come quello che ha portato a ridurre la presenza dello scoiattolo grigio in Umbria, o il Life Montecristo che ha liberato l’isola toscana dai ratti di origine asiatica che l’avevano invasa.
Prevenzione e responsabilità
«Dobbiamo cambiare marcia – spiega la biologa Lucilla Carnevali, dell’Ispra – in Italia manca la lungimiranza di investire prima che il problema esploda».
Qui si innesca un altro tema: mentre si insegue l’eradicazione (in molti casi ormai impossibile) delle 48 specie indicate dall’Ue, si ignora l’avanzata delle nuove, e il granchio blu ne è la dimostrazione. «La prevenzione – dice Antonio Nicoletti, responsabile del Settore biodiversità di Legambiente – ha ottime probabilità di successo e costi infinitamente inferiori. Una battaglia che l’Italia sta perdendo perché manca un serio coordinamento tra le politiche, le risorse adeguate e pure la consapevolezza sulla portata del fenomeno, che rischia di spazzare via per sempre specie ed ecosistemi sempre più fragili».
Secondo Ernesto Azzurro, che per il Cnr coordina Ormef la più completa base di dati sulle specie di pesci esotici del Mediterraneo, «le attività antropiche stanno generando cambiamenti epocali negli ecosistemi naturali, che in molti casi non sono arginabili, soprattutto negli ambienti marini. In particolare, il nostro Mediterraneo è oggi considerato il mare più invaso al mondo, avendo superato le 1000 specie esotiche». E sugli scenari futuri lancia un’allerta: «In Italia ci sono molte specie invasive che hanno già raggiunto le nostre coste ma non sono ancora esplose come invasori. Un esempio è il pesce coniglio, specie caratterizzata da spine velenose, presente da qualche anno in Sicilia e che mangia le alghe della costa. Se la sua presenza, favorita dai mutamenti climatici, dovesse aumentare sarebbe un problema serio per la pesca e per l’equilibrio degli ecosistemi marini». E allora pensiamoci adesso al pesce coniglio, non fra dieci anni, quando ci saranno da pagare i danni ai pescatori!
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