Il 2016 sarà l’annus horribilis dei pensionati. Dal primo gennaio scatterà, infatti, uno scalone che penalizza i lavoratori, e in particolar modo le donne. Chi non riuscirà a maturare i diritti per incassare l’assegno previdenziale prima della fine dell’anno, andrà incontro a pesantissime riduzioni. La mannaia dell’Inps si appresta a calare sugli assegni dei pensionati. Ancora pochi giorni e, come anticipa Italia Oggi, le principali previdenze subiranno riduzioni che oscillano dal 2% all’8%. Riduzioni consistenti, insomma. Colpa, da una parte, dell’aumento della speranza di vita, che allunga di quattro mesi la data del pensionamento, e dall’altra dell’entrata in vigore di alcune norme firmate dall’ex ministro del Welfare Elsa Fornero che penalizza le lavoratrici allungando la permanenza al lavoro di “un anno e quattro mesi per le autonome e un anno e dieci mesi per le dipendenti”. A queste due congiunture nefaste si aggiungono i nuovi coefficienti di trasformazione del montante contributivo.
Morale della favola? La maggior parte degli assegni previdenziali saranno ridotti del 2%. Ma, in diversi casi, la decurtazione sarà dell’8%. Negli ultimi anni questo meccanismo ha devastato le rendite dei neo pensionati. Come fa notare Marino Longoni su Italia Oggi, “un lavoratore andato in pensione a 65 anni nel 1996 ha applicato un coefficiente di trasformazione del montante contributivo pari a 6,136. Per chi andrà in pensione dal 2016 – continua – lo stesso coefficiente sarà del 5,326”. Il che fa circa il 13% in meno.
PENSIONI PIÙ POVERE E LONTANE: NEL 2016 RIDUZIONI FINO ALL’8%
di Daniele Cirioli. Le cattive notizie, si dice, non arrivano mai da sole. Sarà solo un detto, ma in tema di pensioni sembra azzeccarci in pieno; infatti, il nuovo anno riserva (almeno) due brutte notizie a tutti i lavoratori: la prima è che ci vogliono quattro mesi in più per andare in pensione; la seconda è che chi ha la fortuna di andarci, riceverà una pensione più magra rispetto a chi è andato prima all’incirca di un 2%. Le novità sono contenute in due decreti ministeriali che entrano in vigore dal 1° gennaio 2016: il dm 16 dicembre 2014 che adegua tutti i requisiti di tutte le pensioni alla c.d. «speranza di vita»; il dm 22 giugno 2015 che fissa i coefficienti di calcolo delle pensioni validi nel triennio 2016/2018.
Come se ciò non bastasse, c’è poi da aggiungere il nuovo step di aumento dei requisiti per la pensione già programmato dalla riforma Fornero (la legge n. 214/2011): una batosta vera e propria per le lavoratrici donne, autonome e dipendenti del settore privato. Per loro, infatti, il requisito d’età per mettersi a riposo, dal prossimo 1° gennaio 2016, sale di 1 anno e 4 mesi (autonome) e di 1 anno e 10 mesi (dipendenti del privato), sommando gli effetti della riforma Fornero e quelli della nuova speranza di vita. A conti fatti, per mettersi in pensione dal 2016, la lavoratrice dipendente di un’azienda dovrà avere 65 anni e 7 mesi d’età (bastano 63 anni e 9 mesi fino al 31 dicembre), mentre la commerciante dovrà avere 66 anni e 1 mese (64 anni e 9 mesi fino al 31 dicembre). Carta e calamaio, vediamo dunque quando e con quanto si può andare in pensione dal prossimo anno.
LE NOVITÀ DEL 2015
Il cantiere delle pensioni non chiude mai. Lo abbiamo visto nella caldissima estate scorsa, con la consegna di numerose novità. La sentenza della corte costituzionale n. 70/2015, per esempio, che ha riconosciuto il diritto ai pensionati a ricevere arretrati per la mancata rivalutazione del biennio 2012/2013 (a dire il vero si è trattato del «ridimensionamento» del diritto a ricevere in «pieno» la mancata rivalutazione); o l’anticipo al 1° giorno del mese del pagamento delle pensioni o ancora la «sterilizzazione» degli effetti negativi della crisi sul calcolo delle pensioni. Vediamo le principali.
Pensioni pagate il primo del mese
Dal 1° luglio (doveva essere 1° giugno), tutte le pensioni sono pagate dall’Inps il primo giorno del mese. È l’art. 6 del decreto legge n. 65/2015, convertito dalla legge n. 119/2015 (il decreto sulla sentenza della Consulta n. 70/2015) ad aver disposto che, dal 1° giugno 2015, pensioni, assegni, indennità di accompagnamento e altro erogato agli invalidi civili, nonché le rendite vitalizie dell’Inail erogate dall’Inps vanno messi a pagamento il primo giorno di ciascun mese. Nel caso il giorno 1 cada in giorno festivo oppure non bancabile, l’erogazione slitta al giorno successivo, fatta eccezione per il mese di gennaio 2016 in cui il pagamento avverrà il secondo giorno bancabile; mentre a decorrere dall’anno 2017 i pagamenti saranno effettuati il secondo giorno bancabile di ciascun mese.
La piena e completa «armonizzazione» della data di pagamento, però, ha fatto sapere l’Inps (messaggio n. 3519/2015), è scattata soltanto dal 1° luglio (non dal 1° giugno), a causa dei tempi ristretti tra l’approvazione della nuova norma e il termine della prima scadenza di pagamento delle pensioni, che non ha consentito di unificare tutti i pagamenti in capo al medesimo soggetto. Il ritardo di un mese (da giugno a luglio) c’è stato, in particolare, per i titolari di più pensioni, i quali ricevono un solo assegno cumulativo a partire dal 1° luglio.
A decorrere da giugno, quindi, è stata unificata al primo giorno del mese la data di pagamento per tutte le gestioni dell’Inps, ossia anticipando i pagamenti delle pensioni delle gestioni spettacolo (che prima erano effettuati il giorno 10 del mese) e delle pensioni delle gestioni pubbliche (che prima erano effettuati il giorno 16 del mese). L’Inps, inoltre, ha precisato che il pagamento al primo giorno del mese interessa anche le pensioni in pagamento all’estero, ferma restando la cadenza bimestrale con pagamento posticipato per le pensioni delle gestioni spettacolo corrisposte a beneficiari residenti all’estero.
La novità è arrivata ad appena cinque mesi di distanza dalla simile novità introdotta dalla legge di Stabilità per il 2015 (legge n. 190/2014), relativa all’anticipo al giorno 10 di ogni mese del pagamento delle pensioni per i «pluri-pensionati» . Infatti, dal 1° gennaio 2015, l’Inps paga soltanto in questo giorno ovvero il giorno successivo, se festivo o non bancabile (sabato e domenica), con pagamento cumulativo unico, chi percepisca più trattamenti: pensioni, indennità, assegni e via dicendo.
La novità non aveva comportato modifiche, invece, alle date di pagamento delle pensioni quando si trattava di un’unica pensione, che continuava a essere erogata:
il giorno 1 di ciascun mese per le gestioni Inps (pensioni, indennità ecc.);
il giorno 10 di ciascun mese per le gestioni dello spettacolo e degli sportivi professionisti;
il giorno 16 di ciascun mese per le gestioni dei lavoratori del pubblico impiego (ex Inpdap).
Tetto alle pensioni “d’oro”
Dal 1° gennaio 2015, i lavoratori occupati prima del 1996 non possono maturare né intascare una pensione d’importo superiore a quella calcolata interamente con la regola retributiva anche se nell’ultima parte della vita lavorativa sono stati soggetti al regime contributivo (legge di Stabilità 2015). La disposizione ha corretto un’anomalia manifestata dalla riforma Fornero dopo l’estensione, a partire dal 2012, della regola contributiva a tutti i lavoratori. In pratica succedeva che, in presenza di alte retribuzioni, ai lavoratori dell’ex regime retributivo faceva maturare pensioni più alte di quelle che avrebbero ricevuto se fossero rimasti con il vecchio regime retributivo (come dire: stavano bene e dopo la riforma Fornero stavano ancora meglio, in barba ai principi di spending review di riforma).
La disciplina delle pensioni distingue due categorie di lavoratori: i «vecchi», quelli che hanno iniziato a lavorare prima del 1° gennaio 1996; i «giovani», quelli che hanno iniziato a lavorare da tale data. Fino al 31 dicembre 2011 i vecchi hanno fatto parte del regime retributivo o misto di calcolo della pensione, a seconda che avessero o meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995. I giovani appartengono da sempre (cioè dal 1996) al regime contributivo. Con la riforma Fornero, dal 1° gennaio 2012, tutti i lavoratori, vecchi e giovani, rientrano nel regime contributivo: ai vecchi la pensione è calcolata in parte con la regola retributiva (anzianità al 31 dicembre 2011), in parte con quella contributiva (anzianità dal 1° gennaio 2012); ai giovani la pensione è tutta calcolata con la regola contributiva.
Per i giovani, inoltre, i contributi si pagano fino a un certo importo di retribuzione, pari a 100.324 euro: oltre non si pagano contributi, ma non si matura neanche la pensione. Perciò il giovane che guadagna 200mila euro paga i contributi fino all’importo di 100.324 euro e anche la sua futura pensione sarà calcolata fino al corrispondente (ridotto) montante contributivo.
Lo stesso limite non valeva ai vecchi lavoratori: e questa era l’anomalia della riforma Fornero. Perché il vecchio dipendente che guadagna 200 mila euro, che nel regime retributivo avrebbe potuto maturare una pensione massima (con il massimo d’anzianità di 40 anni) di 160 mila euro (l’80% dell’ultima retribuzione), con il sistema contributivo si trovava a poter maturare una pensione più alta, perché svincolata dal tetto di contribuzione (100.324 euro) e svincolata pure dagli anni di contribuzione (che, invece, possono arrivare a 40 nel regime retributivo).
Nel dettare le istruzioni operative (circolare n. 74/2015), l’Inps ha precisato che il «tetto»:
si applica a tutti i soggetti iscritti all’Ago (assicurazione generale obbligatoria) e alle forme sostitutive ed esclusive della stessa, che al 31 dicembre 1995 hanno un’anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni (quindi appartengono al vecchio regime «retributivo» delle pensioni); non si applica alle pensioni d’inabilità.
L’Inps inoltre ha fornito i dettagli dell’operazione di applicazione del «tetto» , che consiste in un doppio calcolo della pensione: l’importo più basso è quello spettante ed erogato al pensionato.
I due criteri di calcolo delle due pensioni da mettere a confronto sono i seguenti:
-pensione calcolata con i vigenti criteri della riforma Fornero, cioè calcolo retributivo per le anzianità maturate al 31 dicembre 2011 e calcolo contributivo per le anzianità maturate dal 1° gennaio 2012;
-pensione calcolata interamente con il calcolo retributivo per tutte le anzianità maturate, sia prima sia dopo il 31 dicembre 2011, anche oltre i 40 anni massimi di contributi.
Come detto, la pensione spettante sarà quella che dal raffronto risulterà di importo minore.
Il pil negativo non deprezza la pensione (ma solo per il 2015)
La crisi riduce le pensioni. La scarsa crescita del Pil, infatti, si ripercuote sulla rivalutazione dei contributi versati all’Inps, che serviranno un domani a calcolare la pensione contributiva. Lo sa bene chi è andato in pensione nel 2015, perché ha avuto la cattiva sorpresa di non avere alcuna rivalutazione dei contributi versati fino al 2013. Tutto sommato, la notizia è positiva; perché il coefficiente di rivalutazione sarebbe dovuto essere addirittura negativo (0,998073%, cioè inferiore a 1, che avrebbe ridotto cioè svalutato i contributi); ma l’Inps ha stabilito di applicare un tasso pari a 1, così «sterilizzando» l’effetto negativo (quindi niente rivalutazione, ma neppure una svalutazione). Quest’operazione che l’Inps aveva deciso autonomamente in via amministrativa è stata sistemata da una norma: l’art. 5 del dl n. 65/2015, convertito dalla legge n. 119/2015, con una novità però: prevede il «recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive» del tasso negativo che non viene applicato. In particolare, poiché per l’anno 2015 il coefficiente applicato è 1 in luogo di un valore inferiore (0,998073), nel 2016 il coefficiente che sarebbe dovuto essere 1,005331 sarà ricalcolato (diminuito) in 1,003394, recuperando così la sterilizzazione del tasso negativo del 2015. Insomma, chi è andato in pensione nel 2015 non ha subito alcuna penalizzazione, perché di questa penalizzazione se ne farà carico chi andrà in pensione dal 1° gennaio 2016.
Stop agli «arrotondamento» dei requisiti per la pensione
La notizia è dell’Inps (messaggi n. 2974/2015 e n. 3305/2015): alle pensioni con decorrenza successiva al 30 aprile 2015 (cioè dal 1° maggio), il requisito dell’anzianità contributiva deve essere calcolato per intero. Il principio vale, in particolare, dalla riforma Fornero (vale a dire dai contributi accreditati dal 1° gennaio 2012): se servono 20 anni di contributi, è necessario che siano maturati tutti e 20 gli anni per intero, senza possibilità di arrotondare all’eventuale frazione di mese. Uniche eccezioni: i salvaguardati, le pensioni d’inabilità, l’opzione donna e chi ha 40 anni al 31 dicembre 2011.
L’Inps ha fornito i chiarimenti in seguito ai quesiti formulati sul significato dell’espressione «maturazione dei requisiti per il pensionamento» usata di norme di legge, che riguardano i lavoratori iscritti alle gestioni esclusive dell’Ago. Si tratta, in pratica dei dipendenti pubblici, i soli ai quali i contributi sono ancora calcolati in anni, mesi e giorni e, in particolare, degli iscritti al fondo speciale del personale dipendente dalle ferrovie dello stato e al fondo di poste. L’Inps ha spiegato che nella determinazione dell’anzianità di contribuzione necessaria al conseguimento del diritto alla pensione con i nuovi requisiti della riforma Fornero (legge n. 214/2011), nonché con il sistema delle c.d. quote, non si deve operare alcun arrotondamento per eccesso o per difetto alla frazione di mese dal momento che l’anzianità stessa deve essere interamente maturata (arrotondamento previsto all’art. 59, comma 1, lett. b, della legge n. 449/1997). L’arrotondamento, invece, continua a operare solo nelle seguenti predeterminate ipotesi:
-regime sperimentale «opzione donna» (servono 35 anni, ma basta maturare 34 anni, 11 mesi e 16 giorni);
-40 anni al 31 dicembre 2011 (basta maturare 39 anni, 11 mesi e 16 giorni);
-«salvaguardati» che raggiungono il diritto alla pensione con 40 anni di contributi a prescindere dall’età (bastano 39 anni, 11 mesi e 16 giorni);
-pensioni d’inabilità (fatta eccezione di quella dell’art. 2, comma 12 della legge n. 335/1995).
Lo stop all’arrotondamento si applica alle pensioni decorrenti dopo il 30 aprile 2015. Pertanto, i criteri di arrotondamento prima in uso continuano a trovare applicazione nelle seguenti situazioni:
-nei confronti di coloro che al 30 aprile 2015 abbiano già risolto il rapporto di lavoro o abbiano un preavviso in corso;
-nei confronti di tutti i soggetti salvaguardati o salvaguardabili a normativa vigente, compresi quelli che accedono alla pensione con il sistema delle c.d. quote.
Stop alla «penalizzazione» prima dei 62 anni
La legge di Stabilità 2015 ha sospeso, fino al 31 dicembre 2017, il particolare meccanismo punitivo previsto a carico di chi possa avere accesso alla pensione prima dei 62 anni di età. Il maccanismo prevede che, sulla quota di pensione calcolata con il sistema «retributivo» , venga applicata:
-una riduzione dell’1% per ogni anno di anticipo nell’accesso alla pensione rispetto all’età di 62 anni (e fino a 60 anni);
-una riduzione del 2% per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due, cioè prima dei 60 anni.
All’atto pratico, la riduzione è dell’1% per ognuno degli ultimi 2 anni mancanti al compimento di 62 anni (per esempio il lavoratore che accede alla pensione anticipata a 60 anni subisce una riduzione del 2%, ovvero, 1% + 1%) e del 2% per ciascuno degli anni mancanti al compimento dei 60 anni (per esempio il lavoratore che accede alla pensione anticipato a 58 anni subisce una riduzione del 6%, ovvero, 1% + 1% + 2% +2%). Nel caso in cui l’età di pensionamento non sia intera la riduzione percentuale è proporzionale al numero di mesi.
La penalizzazione non ha trovato applicazione, fino al 31 dicembre 2014, con riferimento ai soggetti che hanno maturato il requisito contributivo valutando esclusivamente prestazioni effettive di lavoro, nonché i periodi di astensione obbligatoria per maternità, per obblighi di leva, infortunio, malattia e cassa integrazione guadagni ordinaria. Dal 1° gennaio 2015 e fino al 31 dicembre 2017 la penalizzazione non trova applicazione, a prescindere dalla tipologia di contribuzione.
L’Inps ha fornito le istruzioni operative con la circolare n. 74/2015, precisando prima di tutto che i lavoratori interessati sono esclusivamente quelli in regime misto delle pensioni, quindi con almeno 18 anni di versamenti contributivi al 31 dicembre 1995. In secondo luogo, l’Inps ha spiegato che la penalizzazione non si applica alle pensioni il cui diritto sia maturato tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017, anche se la decorrenza della pensione si colloca in data successiva. E che, invece, con riferimento alle pensioni aventi decorrenza anteriore al 1° gennaio 2015 continua a trovare applicazione la penalizzazione secondo la vecchia disciplina.
In terzo luogo, l’Inps ha precisato che a tale «deroga» (la disapplicazione della penalizzazione fino al 31 dicembre 2017) trova applicazione il principio c.d. della «cristallizzazione del diritto a pensione». Tale principio, si ricorda, è finalizzato a tutelare il legittimo affidamento e la certezza del diritto dei lavoratori per cui, una volta perfezionato il diritto alla pensione in base al requisito contributivo richiesto dalla legge a una certa data, riconosce la facoltà di accedere alla pensione anche successivamente a tale data (di maturazione dei requisiti), senza che sia necessario o si possa richiedere di perfezionare l’eventuale più elevato requisito vigente al momento di effettivo accesso alla pensione. Pertanto, in applicazione di tale principio, non si applica la penalizzazione ai soggetti che entro il 31 dicembre 2017 maturino il diritto alla pensione anticipata anche in presenza di meno di 62 anni di età, anche qualora la decorrenza della pensione dovesse effettivamente avvenire successivamente e a tal epoca l’interessato ha un’età inferiore a 62 anni.
I nuovi coefficienti (2016/2018)
Pensioni sempre più magre. Un nuovo taglio è programmato dal prossimo 1° gennaio 2016, dopo quello scattato dal 1° gennaio 2013 e che termina il 31 dicembre 2015. Durante questo triennio, a parità di ogni altra condizione, gli assegni sono stati alleggeriti in media di circa il 3% rispetto a chi è andato in pensione negli anni 2010-2012 e di un 7%, sempre in media, rispetto a chi ci è andato entro il 2009. All’orizzonte, ora, c’è un ulteriore taglio di circa il 2%, sempre in media, e che porta a circa l’11% la riduzione, sempre in media, rispetto a chi ci è andato entro il 2009: quello fissato dal decreto del ministero del lavoro 22 giugno 2015 e pubblicato sulla G.U. n. 154 del 6 luglio, che fissa i coefficienti validi per il triennio 2016/2018 (si veda tabella). Le riduzioni sono tutte dovute alle modifiche dei cosiddetti «coefficienti di trasformazione dei contributi versati», cioè degli indici fissati dalla legge (e appunto aggiornati periodicamente) che trasformano i contributi in pensione. Scappatoie o uscite di emergenza da questa tagliola non ce ne sono, se non quella di lavorare di più. La riforma Fornero, per questo, ha agevolato chi rimarrà al lavoro fino alla veneranda età di 70 anni e 7 mesi, cioè proprio al fine di ottenere pensioni più consistenti.
Il nuovo decreto sulla speranza di vita (dal 2016)
Dal 1° gennaio 2016 si andrà in pensione quattro mesi più tardi. Il 16 dicembre 2014, infatti, i ministri del lavoro e dell’economia hanno firmato il decreto che adegua tutti i requisiti di tutte le pensioni alla ‘speranza di vita’. È il secondo adeguamento, dopo quello scattato il 1° gennaio 2013 (decreto 6 dicembre 2011). Dopo il 2016, seguirà un altro adeguamento triennale dal 2019 e poi, per effetto della riforma Fornero, i successivi adeguamenti saranno biennali a partire dal 2021. Il decreto, come detto, aumenta di 4 mesi i requisiti per le pensioni a partire dal 1° gennaio 2016: che cosa succederà, dunque? Facciamo qualche esempio. I lavoratori «uomini» (dipendenti, artigiani, commercianti, parasubordinati) nel 2015 possono ottenere la pensione di vecchiaia all’età di 66 anni e 3 mesi; dal 1° gennaio 2016 ci andranno a 66 anni e 7 mesi (4 mesi in più). Le cose vanno peggio per le donne: le lavoratrici dipendenti del settore privato, nel 2015, vanno in pensione di vecchiaia all’età di 63 anni e 9 mesi; dal 1° gennaio 2016 ci andranno a 65 anni e 7 mesi (22 mesi in più, tenendo conto non solo dei 4 mesi in più della speranza di vita, ma anche dei nuovi requisiti della riforma Fornero); le lavoratrici autonome (commercianti, artigiane, parasubordinate) nel 2015 vanno in pensione di vecchiaia a 64 anni e 9 mesi; dal 1° gennaio 2016 ci andranno a 66 anni e 1 mese (16 mesi in più).
PENSIONI PIÙ POVERE E LONTANE
di Marino Longoni. In pensione più tardi, e con meno soldi in tasca. Dal primo gennaio 2016 scatterà uno scalone previdenziale che penalizza i lavoratori, soprattutto donne, che non riescono a maturare i requisiti per maturare il diritto all’assegno previdenziale prima della mezzanotte del 31 dicembre. E’ l’effetto dell’applicazione degli indicatori legati all’aumento della speranza di vita, che allunga di 4 mesi la data del pensionamento, ma anche della entrata in vigore di alcune norme contenute nella legge Fornero che penalizzano le donne lavoratrici allungando la permanenza al lavoro di un anno e quattro mesi per le autonome e un anno e dieci mesi per le dipendenti. La misura dell’assegno previdenziale è invece ridotta a causa dei nuovi coefficienti di trasformazione del montante contributivo, fissati tenendo conto di alcuni parametri statistici come l’aumento della vita media e alcuni indicatori economici. Se è vero che il taglio nella maggior parte dei casi si aggira intorno al 2%, ci sono anche decurtazioni che arrivano fino all’8%. Un meccanismo che negli ultimi anni ha falcidiato le rendite dei neopensionati: basti pensare che un lavoratore andato in pensione a 65 anni nel 1996 ha applicato un coefficiente di trasformazione del montante contribuivo pari a 6,136. Per chi andrà in pensione dal 2016 lo steso coefficiente sarà del 5,326. Da solo fa il 13% di pensione in meno. In realtà le modifiche al regime previdenziale che entrano in vigore allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre sono molto più numerose e complesse (si veda l’insertino pubblicato sul numero di ItaliaOggi Sette in edicola da lunedì 21).
Resta il fatto che negli ultimi vent’anni praticamente tutti i governi sembrano aver spinto sull’acceleratore della riduzione delle (future) pensioni e dell’innalzamento dell’età pensionabile. Chi ha iniziato a lavorare nel 1996 poteva aspettarsi, a certe condizioni, di andare in pensione dopo soli cinque anni con il sistema contributivo. Lo stesso lavoratore, oggi, con 19 anni di lavoro non ha ancora maturato il diritto alla pensione, perché gradualmente il numero minimo di versamenti contributivi è stato innalzato a 20 anni. Non ha tutti i torti se si sente come il classico asino con la carota davanti al muso, che non riesce mai a raggiungere. E non è infondato il sospetto che lui non entrerà mai nella magica atmosfera dei diritti quesiti, e rischia di passare tutta la sua vita ad inseguire diritti di altri senza mai poterli raggiungere.
Facile comprendere perché diventi sempre più pressante la questione del conflitto intergenerazionale. Il punto critico è che chi è già in pensione ha un trattamento nettamene migliore di chi è ancora al lavoro. E tanto maggiore è la discriminazione quanto più grande è la differenza di età.
La conseguenza concreta di questo stato di cose è certificata dal raffronto tra la ricchezza delle famiglie più giovani e più anziane. Secondo un recentissimo rapporto Bankitalia, tra il 1995 e il 2014 la ricchezza netta media delle famiglie con a capo chi ha meno di 34 anni è scesa verticalmente, da 100 a 40. Quella con capofamiglia sopra i 65 anni è salita invece da 100 a 160. Vent’anni fa la ricchezza media delle famiglie anziane era di poco inferiore a quella delle giovani. Oggi, è tre volte e mezzo superiore. Prima o poi scoppierà il bubbone.
Tratto dall’inserto di ItaliaOggi 7 di lunedì 21 dicembre 2015