La richiesta di autonomia differenziata, infatti, vede in pista altre sette Regioni, che hanno dato al proprio presidente l’incarico di attivare il negoziato con il Governo, e altre tre che si sono dette interessate, ma non hanno conferito un mandato.
Stato e Regioni continuano a litigare e a chiamare in causa la Corte costituzionale. Nel 2018 i ricorsi generati dai conflitti tra Roma e la periferia sono stati quasi la metà di quelli complessivamente presentati nell’anno davanti alla Consulta. Un braccio di ferro che potrebbe anche farsi più intenso se dovesse andare in porto la riforma sull’autonomia differenziata. Un progetto per ora accantonato per via della crisi di Governo, ma evocato come un percorso da completare sia dal premier Giuseppe Conte nel corso delle comunicazioni di martedì scorso al Senato, sia dal leader dei 5 Stelle Luigi Di Maio, che l’ha inserito fra i dieci punti da continuare a perseguire se questa legislatura proseguirà. Ora si guarda al modello emiliano di autonomia (si veda Il Sole 24 Ore di sabato).
Il maggior spazio di manovra chiesto dalle Regioni ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione potrebbe, una volta concesso, riverberarsi sul contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Come è stato per la riforma del Titolo V della Carta, diventata operativa a novembre del 2001, dopo la ratifica referendaria del mese precedente.
In 18 anni di Titolo V riformato – quello che, appunto, regola i rapporti tra lo Stato e le amministrazioni periferiche – la Corte ha avuto il suo bel daffare. Già nel 2002 erano stati presentati complessivamente 107 ricorsi, sia dalle Regioni contro lo Stato, sia viceversa. Una litigiosità altalenante, che ha raggiunto il suo picco nel 2012, con 193 cause, e il suo minimo nel 2007 (50). L’anno scorso i ricorsi sono stati 87, in diminuzione rispetto al 2017, quanto erano stati 95. Oltre alle fisiologiche oscillazioni di questo contenzioso, va, però, messo in conto anche il fatto che nel 2018 il nuovo Governo ha stentato a prendere forma. E l’Esecutivo è uno dei due attori del braccio di ferro costituzionale.
Nonostante la flessione dei ricorsi, il contenzioso tra Stato e Regioni resta comunque uno dei maggiori impegni dei giudici costituzionali. Al punto che, anche per effetto della diminuzione delle sentenze emesse complessivamente dalla Corte (erano 281 nel 2017 e l’anno scorso sono scese a 250) e dell’aumento di quelle sul conflitto tra Roma e le amministrazioni territoriali (passate da 106 del 2017 a 122 dello scorso anno), le decisioni in materia di rapporti tra centro e periferia nel 2018 hanno rappresentato quasi il 50% del lavoro della Consulta. Una sentenza su due ha, dunque, cercato di mettere ordine nel complicato reticolo delle competenze legislative statali e regionali disegnate dal nuovo Titolo V. A partire dagli spazi di manovra consentiti a ciascuno dei due attori dalla legislazione concorrente, dove gli sconfinamenti sono potenzialmente più facili.
E che il lavoro sin qui svolto dai giudici sia stato impegnativo lo dimostra il fatto che delle 2.152 sentenze emesse in 17 anni, oltre la metà (1.131) è di illegittimità costituzionale. A conferma che il presidio della Consulta è necessario per evitare il caos delle competenze.
Dato questo quadro, si può ipotizzare che il sopraggiungere del regionalismo differenziato procurerà nuovo lavoro alla Corte. Scenario che, seppure di là da venire, può comunque essere ragionevolmente prefigurato guardando al faticoso iter che la riforma ha avuto fin qui. Partita nella precedente legislatura, quando il Governo Gentiloni sottoscrisse tre accordi preliminari con i Governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, il negoziato è proseguito nella legislatura attuale. Tra i temi centrali, le compentenze da trasferire dallo Stato alle tre Regioni. Il Governo, nonostante le differenze di vedute sul tema tra Lega e 5Stelle, aveva raggiunto un accordo sulle intese da sottoporre al Parlamento. La crisi ha, però, bloccato il processo, che comunque ha fatto nuovi proseliti.