Tutte le strade dei sapori dal mondo portano alla Chinatown milanese. Container di frutta esotica, verdura Made in Asia, bancali di noodles con alghe e gamberetti insieme alla carne di maiale arrivano dopo migliaia di chilometri spesso completamente invasi da muffe e parassiti. Importate, stoccate e smerciate dai grossisti cinesi a prezzi «low cost» e senza i necessari documenti che ne certificano la provenienza. E puntualmente finite sotto sequestro. La partita di confezioni giapponesi di «Atsuyaki Tamago», le omelette surgelate prodotte con uova contaminate dal Fipronil (l’insetticida Made in Belgio al centro dell’allarme scattato in tutta l’Europa) e finite sui banchi di un negozio di importatori cinesi di via Canonica, è solo la punta dell’iceberg di una moda globale, quello del cibo etnico, che nasconde qualche insidia per la salute pubblica.
Il quartiere cinese di Milano, a due passi dalla stazione Garibaldi, è uno dei centri di smistamento di alimenti e cibi che prima di finire in tavola arrivano fino a qua da tutto il mondo. Quasi tutti i maggiori importatori vedono crescere il proprio settore del 5-10 per cento l’anno. E gli affari vanno ancora meglio a chi si concentra su bevande e cibi esotici da vendere più agli italiani che agli stranieri che vivono nel nostro Paese, come i ristoranti «all you can eat», dove si paga poco e si mangia tanto. Prendendo in considerazione solo il cibo etnico che passa per la grande distribuzione organizzata (Gdo), nel 2015 il fatturato ha raggiunto quota 160 milioni di euro, quasi il doppio del 2007 e in aumento del 18,6 per cento rispetto ad appena un anno prima.
Import che nascondono la «trappola» dell’etnico ad ogni costo e dimenticano i costi di anidride carbonica per farli arrivare dal produttore al consumatore. Fuori dai controlli imposti dalla Ue con questi cibi si rischia di più.
La moda e il sogno di un mondo sano, equo e giusto a partire dall’alimentazione si scontra però con la dura realtà: la produzione senza pesticidi soddisfa i consumatori dei Paesi ricchi, ma non può sfamare la popolazione mondiale, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. La contraddizione del mangiare sano ad ogni costo sta tutta nei numeri, che segnalano il boom (+47%) delle importazioni di prodotti «bio».
Dietro l’etichetta che associa l’idea di «esotico» a «buono», ecco il grano in arrivo dalla Turchia e dal Canada, il riso dall’India, Pakistan e Thailandia. Le erbe e le spezie aromatiche coltivate in India, Senegal e Messico. Patate e legumi sbarcano dalla Cina, dall’Egitto e dalla Turchia. Mentre lo zucchero da canna viene coltivato in Sud America.
Frantumato il totem del chilometro zero, fa però bene al nostro corpo? La stessa Unione europea, nel definire gli standard necessari del marchio Biologico, ha scritto che scegliere questi alimenti non fa bene necessariamente alla salute. Il brand garantisce le vendite, ma non mette al riparo dall’abbondanza di grassi, additivi e zuccheri. Esattamente come i prodotti convenzionali. [M. S.]
La Stampa – 25 agosto 2017