L’Italia della corruzione e delle sue mafie, prima e dopo. L’Italia dei patti e delle trame, sempre. L’Italia dove il «camorrista ripulito» diventa capo elettore a Napoli nel 1874 e dove i boss calabresi allungano le mani sui fondi del terremoto del 1908, come lo faranno cent’anni dopo all’Aquila nel 2009. Ogni volta sembra tutto nuovo ma purtroppo tutto è già accaduto.
Mafiosi, corrotti e corruttori, sciacalli, ladri. E i famigerati “colletti bianchi” che sono e sono sempre stati la faccia pulita dei poteri criminali. C’erano ieri e ci sono ancora oggi. Come gli ‘ndranghetisti, che da quando esistono — lo ricorda Corrado Alvaro parlando del suo paese, San Luca, sull’Aspromonte — «formavano uno degli aspetti della classe dirigente».
Il titolo è Padrini e Padroni (Mondadori, pagg. 218, euro 18), libro firmato dal procuratore capo della repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri e da Antonio Nicaso, coppia di saggisti che in queste pagine si addentra per la prima volta nelle relazioni con la politica e l’economia e nei labirinti delle logge segrete. È la fotografia di una democrazia permanentemente condizionata dall’uso della forza. Si parte da lontano, dall’inizio. E da una Calabria che ha una ‘Ndrangheta che ancora prima del 1900 «comincia a dotarsi di una struttura molto simile a quella attuale, basata su due livelli», la Società Maggiore e la Società Minore. Si passa dal Fascismo e dalla repressione poliziesca che schiaccia solo i boss che non hanno saputo mimetizzarsi (il Duce non fece mai un riferimento alla pericolosità della mafia calabrese nel suo celebre discorso dell’Ascensione del 26 maggio 1927) e si sfiora il golpe di Junio Valerio Borghese dove la ‘Ndrangheta non si fece coinvolgere, per arrivare ai giorni nostri. Ai De Stefano e ai Piromalli, ai Nirta, ai “boia chi molla” della rivolta di Reggio del 1970, ai Tripodo e ai Macrì. La prima e la seconda guerra di ‘Ndrangheta, in mezzo prima “l’industria dei sequestri” e poi la scoperta del grande traffico di stupefacenti, l’inizio della colonizzazione del Nord e l’espansione nel mondo.
In questa parte del libro, Gratteri e Nicaso ricordano — dimenticato da tutti — il primo omicidio eccellente della Calabria. Un magistrato, Francesco Ferlaino, avvocato generale dello Stato alla Corte di appello di Catanzaro. Ucciso il 3 luglio del 1975. E, subito dopo il delitto, dal suo ufficio sparì una relazione preparata per il Consiglio Superiore della Magistratura «sulle presunte collusioni di diversi magistrati con la ‘Ndrangheta ». E poi gli omicidi del presidente delle Ferrovie Ludovico Ligato e del sostituto procuratore della Cassazione Antonino Scopelliti, molto tempo dopo l’agguato contro il vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. Un filo nero, una mafia calabrese sempre più aggressiva e potente e un’Italia che sta a guardare, che se la trova vicina a Milano o a Torino o in Emilia ma fa finta di niente, che nega (come non ricordare prefetti e questori che sino a qualche anno fa si scandalizzavano dei giornalisti che raccontavano delle mafie al Nord?) e intanto tratta. E, come all’inizio di Padrini e Padroni, nelle ultime pagine ancora la politica. Con i boss che non amano schierarsi. «Ha vinto la sinistra e ci siamo spostati tutti a sinistra. Ha vinto la destra e siamo andati tutti a destra», è la frase pronunciata da un boss di Condofuri e intercettata da una microspia. Il finale è tutto dedicato alle cosche che si confondono con le logge. E a una ‘Ndrangheta sempre più segreta.
Attilio Bolzoni – Repubblica – 31 ottobre 2016