Quando il disegno di legge era diventato legge, nel gennaio del 2011, avevano festeggiato offrendo salsiccia (rigorosamente italiana) a Piazza Montecitorio. Sulle facce degli agricoltori della Coldiretti c’erano grandi sorrisi perché la legge sull’etichettatura dei prodotti alimentari, poteva fermare gli inganni del finto made in Italy sugli scaffali dei supermercati. Prosciutti venduti come italiani ma provenienti da maiali allevati all’estero, pasta ottenuta da un grano coltivato fuori dai confini, concentrato di pomodoro cinese all’olio di oliva tunisino con il solito marchio: made in Italy.
E poi? «E poi la legge è rimasta senza decreti attuativi». Roberto Moncalvo ha 33 anni e da fine 2013 è il nuovo presidente della Coldiretti. Ingegnere del Politecnico di Torino, da neolaureato rifiutò le offerte di lavoro di multinazionali dell’automotive per trasformare la piccola azienda agricola famigliare in un’impresa strutturata che oggi fa vendita diretta di frutta e verdura. Moncalvo spiega che ancora oggi, a distanza di tre anni da quella legge salutata dagli operatori del settore come una benedizione, il 33% della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati con il marchio «made in Italy», contiene materie prime straniere all’insaputa dei consumatori.
È proprio così?
«La legge sull’etichetta di origine che ottenemmo con non poca fatica nel 2011, non ha mai avuto i decreti attuativi. Dagli anni 2000 a oggi gli unici prodotti in cui abbiamo ottenuto questa obbligatorietà dall’Unione europea sono quelli per cui si sono verificate pesanti crisi di sicurezza alimentare. La carne bovina dopo l’emergenza mucca pazza, il pollo dopo l’emergenza aviaria, l’ortofrutta fresca. Ma in generale si può dire che l’etichetta è anonima per circa la metà della spesa degli italiani».
Cosa serve per cambiare le cose?
«Manca la volontà politica e speriamo che con questo governo le cose possano prendere un’altra piega. Purtroppo sulla legge dell’etichettatura ha vinto la forza delle lobby dell’agroindustria italiana che continua in modo miope a credere che il made in Italy sia solo una questione di ricette a prescindere dall’origine del prodotto».
Può spiegarsi meglio?
«Gli inganni del finto made in Italy sugli scaffali riguardano due prosciutti su tre venduti come italiani ma provenienti da maiali allevati all’estero. Tre cartoni di latte a lunga scadenza su quattro sono stranieri, idem per la metà delle mozzarelle fatte con latte».
Chi ci guadagna?
«Le grandi aziende agroalimentari che fanno business sulla mancanza di trasparenza. Quella legge obbligava a fare una cosa molto semplice: bisognava indicare l’origine degli ingredienti dei prodotti che componevano la confezione. Quindi se la salsa veniva fatta con pomodori cinesi e poi veniva imbottigliata in Italia, doveva essere specificato sull’etichetta».
E invece?
«E invece ancora oggi molti prodotti sono fatti da ingredienti che non sono italiani, con ulteriori rischi di infiltrazioni delle ecomafie. Dall’inizio della crisi le frodi in questo settore sono triplicate, le persone si vedono costrette ad acquistare prodotti che costano meno, ma comprano confezioni che richiamano al made in italy e dell’Italia hanno poco o niente».
Per questo avete creato l’osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare?
«Siamo di fronte a una drammatica escalation con sequestri nell’agroalimentare che hanno già raggiunto nei primi due mesi del 2014 il valore di circa mezzo miliardo di euro. Ci sono influenze della criminalità dalla fornitura dei mezzi tecnici fino al commercio all’ingrosso e alla produzione di cibo. Alimenti che poi arrivano sul mercato con nomi che addirittura hanno richiami espliciti alla mafia. Tutti questi elementi mettono a rischio un settore vitale del paese che vale il 17% del nostro Pil».
Cosa si può fare?
«Repressione ma anche prevenzione e sicuramente la legge 4 del 2011 avrebbe aiutato. Il ministero della Salute ha in mano tutti i dati sui flussi commerciali dei cibi alle frontiere, eppure questi dati sono trattati come se fossero un segreto di Stato. Se queste informazioni fossero pubbliche sarebbe facile capire quali sono le industrie che importano prodotti dall’estero e poi li piazzano sugli scaffali con il bollino made in italy».
Corinna De Cesare – Corriere della Sera – 23 marzo 2014