Alessandro Barbera. «Noi siamo quel che facciamo». Leonardo Sciascia lo diceva a proposito della forza incontrovertibile dei fatti. Per Henry Ford voleva dire dare importanza al buon lavoro. Renzi e i suoi ne faranno lo slogan del «Jobs Act». Doveva essere il primo punto in agenda, quello con cui dare il segno di una rapida discontinuità, poi il neosegretario ha capito in fretta che su temi come questi occorre andare coi piedi di piombo.
A nulla è valso il mantra «non iniziamo la discussione dall’articolo 18» o aver trovato nell’insospettabile leader della Fiom un interlocutore privilegiato. Dopo due ore di dibattito al primo piano di Palazzo Ruspoli a Firenze gli uomini di Renzi sono giunti alla conclusione che l’unica strada percorribile è invertire l’ordine dei fattori. Niente articolo 18 o discussioni fuorvianti su come applicare le tutele progressive del contratto unico che – ça va sans dire – resta il punto d’arrivo.
La prima fase del piano per il lavoro sarà «l’universalizzazione dei diritti», come dare tutele a quella sempre più grande massa di sfortunati che non può contare sulla cassa integrazione ordinaria o straordinaria, sulla mobilità lunga o corta, e nemmeno sulla cosiddetta «cassa in deroga» che da strumento provvisorio di sostegno al reddito si è trasformato rapidamente in un ricco alibi per Regioni spendaccione. La scommessa di Renzi ora è raccogliere attorno al progetto non solo la Cisl di Bonanni – che ha già deciso di sostenerlo – ma anche quella parte del suo partito che finora, al solo sentir parlare di cambiamenti, ha alzato ditini e sopraccigli.
La parola d’ordine del piano Taddei-Madia – i due membri della segreteria incaricati di mettere a punto la relazione – sarà «la trasformazione della missione produttiva del Paese». Come – per dirla con le parole del nuove responsabile economia – «riorientare le risorse oggi spese male», trovare i fondi per «far emergere i settori più innovativi di un Paese che non cresce da più di dieci anni». Il progetto sarà pronto per il 16 gennaio, punto centrale della relazione dello stesso Renzi di fronte alla direzione del partito. In altri tempi lo si sarebbe potuto definire un progetto di politica industriale, un’impostazione che non dispiacerà – ironia del fato – nemmeno al dimissionario Fassina.
Il piano è però tanto ambizioso quanto concretamente da definire. Per riformare il sistema della cassa integrazione e farla diventare uno strumento per tutti ci vogliono dai tre ai cinque miliardi di euro. Una quantità enorme di soldi per un bilancio, come è quello italiano, irrigidito da leggi e leggine di spesa che hanno creato una massa inestricabile di privilegi corporativi. Ecco perché il piano marcerà di pari passo con la spending review di Carlo Cottarelli. Quale che fosse il destino del governo Letta, Renzi e i suoi sanno che il commissario alla spesa ha di fronte a sé tre anni di lavoro, al riparo da quello spoil system che ha spesso fiaccato le migliori intenzioni dei migliori tecnici. Fra i molti gruppi di lavoro dell’ex dirigente del Fondo ci sono non solo i costi della politica o dei cosiddetti incentivi alle imprese, ma anche la riforma dei centri per l’impiego o delle prestazioni assistenziali. La strada è lunga, ma in mezzo ci saranno un paio di campagne elettorali e – forse – anche nuove elezioni politiche.
Pietro Ichino/ “Senza toccare il fisco le riforme del lavoro rischiano il flop”
Ichino, a giorni sarà presentato il Jobs act di Renzi; le indiscrezioni parlano di una proposta che dovrebbe ricalcare il contratto unico, dunque con tutele crescenti. Come dovrebbe essere congegnato, secondo lei?
«La proposta di Scelta Civica del contratto a protezione crescente in proporzione all’anzianità di servizio, prevede che dal terzo anno in avanti la scelta aziendale del licenziamento resta insindacabile, salvo il controllo giudiziale sulle discriminazioni e rappresaglie, ma l’impresa vede crescere gradualmente il costo di separazione, con un obbligo di trattamento integrativo di disoccupazione che rende progressivamente più robusto e di maggior durata il sostegno del reddito garantito al lavoratore e il servizio di assistenza intensiva erogato da un’agenzia di outplacement».
I critici dicono che è la ricetta sbagliata, che bisogna concentrarsi su misure per rilanciare la domanda, senza abbassare le tutele.
«Avrebbero ragione se intendessero dire che la vischiosità del sistema italiano non è generata soltanto dall’articolo 18: vi concorrono anche la cultura diffusa, la carenza dei servizi nel mercato del lavoro, l’orientamento prevalente della giurisprudenza in materia di licenziamento per motivi economici. Ma vischiosità prodotta da tutti questi fattori c’è, eccome, e fa molto danno, ai lavoratori e alle imprese. Soprattutto in questa fase di riposizionamento dell’economia italiana in uscita dalla crisi».
Però anche la Confindustria tende a dire che l’articolo 18 non è un problema.
«Certo: perché fin qui l’hanno risolto, d’accordo con i sindacati, mettendo i lavoratori in Cassa integrazione per anni. Se amano molto quel sistema per ridurre gli organici è proprio perché consente loro di evitare l’invio delle lettere di licenziamento, con i conseguenti rischi giudiziali. Non appena la Cassa integrazione sarà ricondotta alla sua funzione originaria, che non è quella di sostituire il trattamento di disoccupazione, allora anche la Confindustria tornerà a mettere a fuoco il problema».
Cioè?
«Il problema di un Paese nel quale tutto il sistema di protezione del lavoratore è ancora di fatto centrato sull’ingessatura del posto di lavoro. Nel quale, dunque, è troppo difficile il passaggio dei lavoratori da un’impresa che riduce l’attività o chiude a una che ha bisogno di manodopera qualificata».
Non pensa che senza un deciso intervento sul carico fiscale, anche il contratto unico rischierebbe di essere un flop?
«Sì, occorre agire contemporaneamente su tre grandi leve. La prima è la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, per abbassare il costo del lavoro. La seconda è la riduzione dei disincentivi normativi all’assunzione a tempo indeterminato: occorre incoraggiare l’investimento dell’impresa sul lavoratore, in questo periodo di incertezza gravissima sul futuro anche a breve termine. La terza è il miglioramento dei servizi nel mercato del lavoro, attraverso la cooperazione con le agenzie private: qui lo strumento cardine è costituito dal contratto di ricollocazione. In una strategia di più lunga durata, poi, ha un’importanza cruciale anche la semplificazione normativa: quel Codice semplificato del lavoro di cui oggi tutti parlano, ma di cui soltanto Scelta Civica ha presentato un progetto preciso in 70 articoli, nero su bianco. Anche sui primi tre punti, del resto, Scelta Civica ha presentato dall’estate scorsa le proprie precise proposte operative».
Tito Boeri/“Il contratto unico va accompagnato a protezioni adeguate”
Boeri, lei è il padre del “contratto unico”, lo ha inventato assieme a Pietro Garibaldi oltre un decennio fa, quando è emerso il problema del dualismo del mondo del lavoro. Secondo lei come dovrebbe essere costruito?
«Come un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; negli anni, tuttavia, dovrebbe aumentare anche il costo per chi licenzia senza giusta causa; al terzo anno l’indennità equivarrebbe a 6 mesi di retribuzione. E sarebbe importante che su quei costi non ci fosse incertezza. Nella proposta formulata da noi, dal terzo anno il reintegro delle tutele, dunque dell’articolo 18, sarebbe pieno».
Qualcuno sostiene che non è il momento di toccare l’Articolo 18, con questi tassi di disoccupazione.
«Il problema di questi anni è un altro: si assume pochissimo. E la riforma Fornero, se ha reso più difficile e oneroso il ricorso ai contratti flessibili, non ha inciso sulle regole per i licenziamenti. C’è stata infatti, da allora, una forte riduzione delle assunzioni, mentre i licenziamenti sono stati quasi esclusivamente collettivi».
Ma il fatto di rendere più oneroso il ricorso ai contratti flessibili non è anche una sua proposta?
«È vero, noi proponiamo di rendere meno costosi i contratti a tempo indeterminato e più costosi quello flessibili. Insomma, di avvicinarli, dal punto di vista fiscale e contributivo. E vorrei chiarire che non abbiamo mai proposto di abolire le altre tipologie contrattuali: si tratta di scoraggiarne il ricorso. Anche attraverso questo avvicinamento degi oneri».
Lei propone da tempo anche una riforma degli ammortizzatori sociali. Come si fa a introdurre una costosa disoccupazione universale – costerebbe secondo molte stime oltre 12 miliardi – con l’attuale situazione dei conti pubblici?
«È vero, non è facile. Tuttavia è importante andare in quella direzione, anzitutto riformando gli attuali ammortizzatori. La cassa integrazione ordinaria ha dimostrato di funzionare bene, ma funziona meglio lo strumento analogo in Germania, la Kurzarbeit, dove l’orario viene prevalentemente ridotto, non azzerato. Man mano che si riducono le ore, sale il costo. Il datore di lavoro preferisce spalmare le ore da ridurre su più lavoratori, invece di mandarne a casa uno azzerandogli le ore del tutto. Il problema vero, però, è la cig straordinaria, che si utilizza in caso di crisi strutturali».
In quel caso, meglio chiudere l’azienda e ricorrere a un sussidio di disoccupazione per i lavoratori?
«Esatto. E il terzo istituto da abolire è la cig in deroga, uno strumento gestito dai sindacati e degli enti territoriali: arbitrario, politico. Meglio introdurre un sussidio universale più lungo di quello attuale, di due anni».
C’è anche un problema di carico fiscale sul lavoro…
«Grave, direi. Mi auguro che il governo mantenga l’impegno di ridurre il cuneo fiscale con le risorse che si ricaveranno dalla spending review. Mentre sarebbe sbagliatissimo farlo con i soldi risparmiati con il calo dello spread: quelli devono andare a ridurre il debito».
La Stampa – 5 gennaio 2014