Uno dei problemi più gravi dell’attuale mercato del lavoro è la complessità normativa. Le regole sono troppe, fissano adempimenti che sembrano avere solo un intento punitivo, e sono scritte a volte in maniera così imprecisa da generare continui dubbi applicativi.
Per fare un esempio, si pensi alla vasta gamma delle comunicazioni obbligatorie: non parliamo della giusta comunicazione da fare quando si assume una persona (misura indispensabile contro il lavoro nero), ma degli adempimenti che complicano la gestione di contratti di lavoro flessibili.
Ogni volta che si usa il lavoro intermittente, bisogna inviare una comunicazione obbligatoria, in base a una modulistica ministeriale che cambia in continuazione. Un obbligo simile deve essere rispettato dal datore di lavoro che, per errore, prosegue di fatto, ma per un periodo contenuto, il contratto a termine dopo la sua scadenza.
Come si può pretendere che l’azienda comunichi in via preventiva che sta per dimenticarsi della scadenza? Un altro esempio massimo di burocrazia è la procedura sulle dimissioni, introdotta dalla legge 92/2012 con l’intento di contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco. Questa finalità ha trovato attuazione in una procedura che impone alle aziende di rincorrere il lavoratore dimissionario, con paradossi giuridici incredibili se non viene esperita (il rapporto rinasce, contro la volontà delle parti).
Un adempimento penalizza soprattutto le aziende regolari. Tra le norme scritte in maniera imprecisa, ci sono quelle sulla causale del contratto a termine, che non frena gli abusi ma fa crescere il contenzioso nei tribunali. Si pensi al destino riservato agli stage, stretti nella morsa di norme statali incostituzionali (il famoso articolo 11 della legge 148/2011, annullato dalla Consulta), circolari ministeriali e accordi intergovernativi (come quello del gennaio 2013) che potrebbero dare stabilità alla materia, ma devono ancora essere messi a regime nelle singole regioni.
Infine, un capitolo importante riguarda il processo del lavoro. Chi intende impugnare un licenziamento, dopo la riforma del 2012 deve affrontare quattro giudizi (non più tre) e deve fare i conti con le incertezze del nuovo rito sommario, che viene applicato in maniera diversa da un Tribunale all’altro. Un ordinamento giuridico di questo tipo non attrae investimenti e, anzi, diventa un ostacolo oggettivo per creare nuova occupazione. Forse proprio la semplificazione può essere la riforma a costo zero che può dare una scossa al mercato del lavoro.
Il Sole 24 Ore – Giampiero Falasca – 27 maggio 2013