Non si ferma ai lavoratori dipendenti la strategia che ha in mente il governo per dare un paracadute a chi ha perso il posto. Il piano di riforma degli ammortizzatori sociali riserva infatti un capitolo nutrito ai collaboratori a progetto (categoria comunque destinata a scomparire) oggi tutelati da un sussidio una tantum che copre appena 100 mila persone e che offre una remunerazione modesta.
Nei progetti di Palazzo Chigi tutto ruota intorno alla costruzione di una nuova Aspi (introdotta dalla legge Fornero) che assorbirà anche la cassa integrazione in deroga e che verrà finanziata nella legge di stabilità con una copertura di circa 2,5 miliardi di euro. Con quei soldi (ma al momento nel Def è cifrato solo un miliardo e mezzo), l’esecutivo punta a garantire un assegno non solo ad altri 500 mila dipendenti che restano senza impiego, ma anche a 300 mila co.co.pro (in mono-committenza: cioè quelli che hanno un solo datore di lavoro) al momento tagliati fuori dalle regole stringenti fissate dall’Inps.
L’EQUIPARAZIONE
In pratica, la riforma degli ammortizzatori non farà distinzione se chi ha perso il lavoro è reduce da un contratto di subordinazione oppure se si tratta di un giovane al quale non è stato rinnovato il contratto a progetto. Ci sarà un sussidio mensile analogo a quello di chi è in cassa integrazione, fino ad un massimo di 1.300 euro per un periodo che va da un minimo di tre mesi a due anni, proporzionato all’anzianità di servizio. Tuttavia la legge sarà chiara su un punto: l’erogazione sarà garantita, sullo schema della flexecurity di stampo nord europeo, a patto che il disoccupato accetti un piano di formazione gestito dall’agenzia nazionale per l’impiego. E il diritto sarà perso se si rifiuterà per due volte una nuova offerta di lavoro. Per riuscire ad estendere le tutele ad un numero più ampio di collaboratori a progetto, il Jobs act scardinerà l’attuale meccanismo dell’Aspi che, appunto, a queste categorie di lavoratori offre solo una sorta di liquidazione sottoposta però a condizioni difficili da raggiungere. E’ infatti necessario aver goduto di un reddito compreso tra 15 e 20 mila euro e l’una tantum esclude alcune categorie come i ricercatori e i borsisti. Una discriminazione che si intende superare. Inoltre l’importo dell’indennità è pari solo al 7% del minimale annuo di reddito, moltiplicato per il minor numero tra le mensilità accreditate l’anno precedente e quelle non coperte da contribuzione. Le nuove regole faranno saltare il vincolo del tetto relativo all’ultimo reddito («non si capisce la ragione per la quale un disoccupato che guadagnava più di 20 mila euro non dovrebbe percepire il sussidio» spiega chi lavora al dossier) e sarà sufficiente aver lavorato almeno tre mesi per rientrare tra i beneficiari mentre adesso per l’Aspi occorrono 52 settimane di e per la mini-Aspi 13 settimane lavorative nei dodici mesi prima di perdere il lavoro.
L’ORDINE DEL GIORNO
Intanto, in vista del voto sulla delega sul Jobs act previsto forse per mercoledì prossimo, il governo prepara un documento per precisare meglio alcuni punti sui quali la minoranza del Pd chiede chiarimenti. Probabilmente si tratterà di un ordine del giorno piuttosto che di un emendamento. Ma la sostanza non cambia: per Palazzo Chigi il testo della delega non ha bisogno di ulteriori precisazioni e dunque il Parlamento dovrà esprimersi su un testo nel quale, ad esempio, non verranno specificate nel dettaglio le fattispecie che comportano il reintegro piuttosto che l’indennizzo nei casi di licenziamento disciplinare. «Dal punto di vista puramente normativo la norma così com’è scritta ci consente di fare già ciò che si vuole fare» ha esemplificato ieri il ministro del Lavoro Poletti aggiungendo che «il problema è di tipo politico». E sul piano politico le polemiche non appaiono affatto sopite. Come sul fronte sindacale, peraltro, dal quale è partita una nuova bordata. «Dubito – ha attaccato il leader della Cgil Susanna Camusso – che il nostro ordinamento preveda che una delega permetta di fare quello che si vuole, perchè sarebbe come dire che non siamo più una Repubblica parlamentare». A giudizio del segretario di Corso Italia, infatti, ««la legislazione è una attività del Parlamento, dopodichè arrivano conferme che c’è una idea del tutto ideologica del governo che è quella che invece di lavorare sull’estensione delle tutele, si vuole cancellare diritti immaginando che un luminoso futuro».
Il Messaggero – 3 ottobre 2014