di Dario Di Vico, Il Corriere della Sera. Grazie al documento sul mercato del lavoro pubblicato ieri dall’Istat ne sappiamo decisamente più su quanto è successo dal secondo trimestre del 2019 al giugno 2021, abbiamo sia una prima fotografia dei danni causati dalla pandemia sia un’istantanea su cosa sta accadendo adesso. E di conseguenza, se vogliamo, se ne può ricavare un’agenda delle cose da fare. Partiamo dai numeri-chiave: la crisi del coronavirus è costata 1,2 milioni di posti di lavoro persi nell’anno più duro delle restrizioni sanitarie e del lockdown. Basandosi sui dati al 30 giugno 2021 sappiamo che di quei posti se ne sono riguadagnati rispetto a 12 mesi prima ben 523 mila e ne mancano all’appello ancora 678 mila (di cui 336 mila al Nord).
Ma, dettaglio sicuramente importante, il secondo trimestre del ‘21 si è rivelato decisamente più veloce nel recupero di occupazione rispetto ai trimestri precedenti. Nei soli tre mesi da aprile a giugno infatti sono tornati “a casa” ben 338 mila occupati. È pur vero che a luglio ‘21 c’è stata una piccola battuta d’arresto ma i ricercatori dell’Istat non la considerano indicativa di un’inversione di tendenza.
Se questa è la cornice da tenere bene a mente vengono immediatamente a galla alcune considerazioni. La prima: il blocco dei licenziamenti ha funzionato nella cittadella del manifatturiero e dei posti fissi ma non ha potuto impedire che la crisi si scaricasse sulle frange più deboli del mercato del lavoro o che un discreto lotto di aziende comunque fallisse. Hanno perso il lavoro soprattutto i precari del terziario low cost (simboleggiati dalle code milanesi al Pane Quotidiano), i giovani con contratto a termine, le donne e gli stranieri. Se torniamo ai 678 mila posti ancora da recuperare 570 mila infatti erano di donne e giovani (rispettivamente 370 e 200 mila). Quanto agli stranieri l’Istat ci dice che nel confronto con gli italiani gli occupati sono scesi del 5,5% in più. Se questa è la fotografia del disastro — interessante perché ci spiega e ci conferma che il mercato del lavoro italiano è comunque spaccato in due e la linea di demarcazione passi grosso modo lungo un’altra cittadella, quella della protezione politica e sindacale — altrettanto valida è l’istantanea che riguarda il revamping dell’occupazione. Che ha visto coinvolti maggiormente proprio coloro (giovani, donne e stranieri) che erano stati espulsi nella fase immediatamente precedente. Esaminando la tipologia dei nuovi contratti l’Istat ci dice anche che il recupero dell’occupazione, particolarmente veloce nel secondo trimestre ‘21, riguarda esclusivamente il lavoro a tempo determinato che diventa la modalità standard di assunzione nel dopo pandemia. È vero che i posti fissi da aprile a giugno ‘21 sono aumentati anch’essi di 80 mila unità ma non sappiamo se si tratta dell’accensione di nuovi contratti o di un rientro al lavoro di cassaintegrati a zero ore (che per le nuove regole europee in vigore da gennaio dopo i primi tre mesi non vengono più conteggiati tra gli occupati ma tra gli inattivi).
Per quanto riguarda il lavoro autonomo, con dipendenti o senza, c’è qualche segnale di ripresa dell’occupazione ma ancora troppo labile per capire se siamo in presenza di un’inversione di tendenza. Il clima positivo degli ultimi mesi si riflette anche nella mobilitazione per la ricerca del lavoro tanto è vero che tra il giugno ‘21 e il giugno ‘20 gli inattivi/rassegnati tra i 15 e i 64 anni sono diminuiti di 2,4 punti percentuali. Per finire: la tendenza verso contratti flessibili e le attese che si sono create nel mercato del lavoro ci riportano al tema, tanto evocato, delle politiche attive. Hic Rhodus, hic salta.
La crisi del coronavirus è costata 1,2 milioni di posti di lavoro persi nell’anno più duro delle restrizioni. Ma il recupero è in corso grazie a 523 mila nuove assunzioni. Ma quasi tutti i contratti sono a termine.