Repubblica. A luglio era una sorpresa, con 76 mila posti persi. In agosto pare una conferma: se ne aggiungono altri 80 mila. L’occupazione è in frenata, da non attribuirsi però allo sblocco dei licenziamenti per le grandi imprese. Lo prova il fatto che a luglio hanno pagato i lavoratori autonomi, in agosto per lo più i dipendenti a termine e per l’85% le donne, con 68 mila posti in meno per loro su 80 mila persi in totale. Decrescono, seppur di poco, anche gli occupati a tempo indeterminato e si gonfiano di nuovo gli inattivi: segno inequivocabile che i contrattini non si trasformano, non ci sono passaggi verso la stabilità, ma aumentano gli scoraggiati, quanti cioè non credono di trovare una nuova collocazione e smettono di cercarla.
Dopo una primavera vivace con mezzo milione di occupati in più, la discesa estiva conferma in pieno la difficoltà del lavoro ad uscire dalla crisi. Da gennaio l’Italia ha recuperato 430 mila posti bruciati dalla recessione pandemica, ne restano ancora 390 mila. I nuovi posti sono poi per l’80% a termine e molto spesso a brevissimo termine. La recente indagine congiunta dei cinque maggiori istituti di analisi — Istat, Inps, Inail, Anpal, ministero del Lavoro — dice che il 72% dei contratti a tempo ha durata inferiorie a sei mesi, di questi il 35% è sotto i 30 giorni. Anche Bankitalia, nell’ultima analisi sui dati del ministero del Lavoro, conferma che il 90% dei nuovi contratti da gennaio ad agosto è a tempo.
«Il calo dell’occupazione si riversa in modo prevalente nell’inattività, non c’è travaso verso la stabilità e questo preoccupa», osserva Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio (Cgil). «Continuano poi il trend negativo per le donne, le basse qualifiche, la precarietà e l’involontarierà del part-time: in una parola, il lavoro povero, quando invece quantità e qualità del lavoro sono gli elementi fondamentali che devono guidare le scelte e l’utilizzo dei finanziamenti europei».
La Nadef approvata mercoledì — la nota che aggiorna il Documento di economia e finanza di aprile — prevede per quest’anno un Pil che avanza del 6% e l’occupazione dello 0,8%, dopo un crollo nel 2020 rispettivamente dell’8,9 e del 2,9%. «Questo è quello che si chiama rimbalzo, il tornare indietro dopo un brutto crollo», spiega Andrea Garnero, economista Ocse ed esperto del lavoro. «I dati sull’occupazione di agosto purtroppo raffreddano gli entusiasmi primaverili e alcuni mesi esuberanti. Il gap sull’inizio della pandemia rimane ancora ampio e la situazione è precaria da tutti i punti di vista, anche se i mesi estivi non sono i migliori per valutare una tendenza. Se però la frenata riguardasse anche settembre, si aprirebbero altri scenari».
Il governo prevede per il 2022 un Pil al rialzo del 4,2% senza interventi e del 4,7% con una manovra di bilancio — attesa per metà ottobre — espansiva, ottenuta usando cioè quel tesoretto di circa 22 miliardi maturato grazie alle minori spese e al migliore andamento del Pil. Con un Pil in crescita al 4,7% l’occupazione il prossimo anno salirebbe del 3,3% anziché del 3,1% ipotizzabile senza manovra.
I rischi di previsioni troppo ottimistiche ci sono. Li intravede l’Upb — l’Ufficio parlamentare di bilancio che ieri ha dato l’ok a una parte della Nadef — ma anche il Cnel che con il suo presidente Tiziano Treu avverte del pericolo di una «ripresa senza occupazione», la jobless recovery , fenomeno non solo italiano. Troppe le incognite che alimentano l’incertezza. Tra queste anche la fiammata dell’inflazione, ritenuta dalle Banche centrali Ue e Usa temporanea, ma che nel frattempo erode il potere d’acquisto delle famiglie e ne frena ulteriormente gli acquisti, in un periodo dobve i consumatori sono già molto prudenti. Ieri l’Istat ha rivelato che i prezzi sono saliti del 2,6% a settembre dal 2% di agosto, l’aumento più ampio da ottobre 2012.