La contaminazione delle acque provocata dalle molecole di Pfas è stata arginata, non debellata, e gli effetti nocivi delle sostanze perfluoroalchiliche persistono nella falda dell’Alto Vicentino; ulteriori ricerche (sia nel perimetro dello stabilimento Miteni, a Trissino, che in siti esterni) sono state avviate per circoscrivere, definitivamente, i focolai inquinanti ma l’ampiezza del fenomeno consiglia l’adozione «permanente» dei filtri al carbonio applicati in via cautelativa agli acquedotti che dalla “zona rossa” della valle dell’Agno e del Chiampo si irradiano nei territori dell’Alta Padovana e del Veronese. È quanto emerge dal nostro colloquio con Nicola Dell’Acqua, l’agronomo veronese a capo di Arpav, l’agenzia veneta di protezione ambientale chiamata a fronteggiare l’emergenza, accertare i fatti e pianificare la bonifica.
Direttore Dell’Acqua, la scoperta dei sacchi di scarti industriali interrati negli anni Settanta nell’argine adiacente a Miteni ha segnato una svolta nelle indagini. Arpav stessa ha certificato la presenza di Pfas e di altre sostanze metalliche nelle scorie e la loro azione inquinante nella falda sottostante.
«Senza dubbio si tratta di un progresso significativo nella definizione della verità, abbiamo individuato con certezza un agente di contaminazione ma non possiamo escludere la presenza di altri focolai nell’area. Anzi, li stiamo ricercando con carotaggi e campionamenti che hanno impegnato i nostri tecnici anche a ferragosto. Sarò chiaro: non è il caso di cantare vittoria, a tutt’oggi l’inquinamento è attivo e un pozzo d’osservazione collocato in area Miteni ci segnala ancora valori superiori ai limiti di legge. Dichiareremo il cessato pericolo dopo un anno idrogeologico di analisi negative sui campioni prelevati, non prima».
Nel 2013 Arpav diede fuoco alle polveri inviando una notizia di reato alla Procura di Vicenza che indicava il sito industriale di Trissino (aldilà degli assetti proprietari che si sono succeduti dal 1964 ad oggi) quale diretto responsabile. Da allora, com’è evoluta la situazione sul versante dell’abbattimento dei valori inquinanti e della qualità dell’acqua potabile?
«L’Istituto superiore di sanità prescrive una soglia massima di 300 nanogrammi al litro per il Pfas “totale” e 30 per il suo composto Pfos. Diciamo che nel 2013 le percentuali riscontrate nell’acqua erano almeno cento volte superiori alle attuali. È innegabile che le misure di salvaguardia adottate si siano rivelate utili per disinnescare l’emergenza così come – ma questa al momento è un’ipotesi al vaglio della magistratura – gli eventuali cambiamenti avvenuti nel ciclo produttivo di Miteni».
Permane la necessità di ricorrere al carbonio attivo per filtrare l’acqua proveniente dalla falda e diretta alla rete di distribuzione?
«Certo che sì, anzi, suggerirei alla sanità veneta di dotare questi acquedotti di filtri permanenti, capaci di fronteggiare “eventi spontanei” che, sulla scorta di quanto è accaduto, nessuno può prevedere né tanto meno escludere».
I Pfas, per l’ecletticità del loro impiego in ambito industriali, sono utilizzati e diffusi ovunque ma solo il Veneto sta dando loro la caccia. Perché?
«In effetti è una circostanza sorprendente. È vero che noi abbiamo riscontrato picchi record di concentrazione nelle acque ma mi chiedo se le altre regioni li abbiano mai ricercati: il Veneto, come dire, non è un titolare esclusivo di attività chimiche e conciarie… Posso aggiungere che l’Ue, tramite il ministero dell’Ambiente, ci richiede costantemente informazioni circa l’esito del nostro lavoro. In assenza di uno studio scientifico a vasto raggio sulla penetrazione e gli effetti dei perfluoroalchilici nelle falde, la nostra indagine è destinata a fare scuola e non soltanto in Europa».
Miteni si difende affermando che i Pfas sono stati, e sono, utilizzati da centinaia di aziende vicentine che scaricano nel medesimo collettore…
Noi valutiamo le evidenze scientifiche, l’accertamento delle responsabilità penali compete all’autorità giudiziaria».
Filippo Tosatto – Il Mattino di Padova – 2 settembre 2017