Anche il buon senso ormai lo dice. Le pensioni pubbliche si ridurranno progressivamente, a prescindere dai nuovi interventi, e sarà quindi necessario costituirsi un secondo pilastro previdenziale.
L’opzione è stata tuttavia colta finora solo dal 23% dei lavoratori privati, mentre per quelli pubblici procede con molta fatica e lentezza l’adeguamento della fiscalità alla trasformazione del trattamento di fine servizio in quella prevista per il trattamento di fine rapporto. Risultato: pochi fondi pensione e pochi iscritti.
Ciò espone ampie fasce di lavoratori a un forte impoverimento di qui a qualche decennio. L’allarme non basta a convincere i lavoratori a costruirsi una pensione di scorta. Gli italiani amano il fai da te: dagli immobili ai titoli di Stato fino alle scelte più esotiche e più rischiose, gli ex BoT people sono abituati a decidere in autonomia dove allocare per la vecchiaia una quota rilevante degli oltre 8.600 miliardi di euro, cui ammonta la ricchezza netta nazionale (per il 37% in attività finanziarie).
La stessa volontarietà dell’adesione ai fondi pensione ne sottintende la non necessità. Non a caso è ormai caduto il tabù dell’adesione obbligatoria alla previdenza complementare: non solo gli addetti ai lavori ma anche molti rappresentanti sindacali si sono pubblicamente espressi a favore di misure che spingano i lavoratori ad costituirsi una pensione di scorta. D’altronde non si registrano proteste significative nelle categorie professionali che già prevedono l’adesione obbligatoria, in ragione anche dell’alto contributo datoriale. L’esperienza del semestre di «silenzio/assenso» del 2007 invita a organizzare operazioni analoghe con un’informazione più capillare e puntuale, con lo Stato, più che gli attori del mercato, che si assume la responsabilità di indicare forme di benessere previdenziale dei cittadini, analogamente a quanto accade per la salute.
Su cosa potrebbe puntare il Governo? Diverse le formule ipotizzate di recente per far aderire i lavoratori ai fondi pensione in modo (semi)coattivo: dall’iscrizione obbligatoria con diritto di recesso, motivata documentando la non esigenza di una pensione di scorta, all’adesione senza Tfr e solo con il contributo datoriale – pari a circa l’1,5% della retribuzione –, in modo da stimolare in un secondo momento un’adesione più consapevole e adeguata alle proprie necessità.
Ma i fondi pensione italiani sono in grado di garantire una pensione di scorta che renda dignitoso il reddito dei pensionati futuri? La crisi finanziaria tuttora in corso offre molti spunti per una verifica: regole rigorose di investimento hanno evitato la presenza nei portafogli di titoli “tossici”, se non in rari casi e per percentuali risibili (Lehman non ha mai superato lo 0,2% di portafoglio); inoltre i cali medi accusati nel 2008 sono stati recuperati nei due anni successivi, mentre com’è noto lo stesso primo pilastro ha subìto l’effetto negativo della recessione, con una riduzione delle prestazioni fino all’8%. Un’attenta vigilanza del settore ha ridotto a livelli risibili la presenza di comportamenti patologici dalle cronache.
Ciò che ancora manca è il completamento della manutenzione ordinaria: la riforma dei criteri e limiti di investimento, può aumentare gli strumenti a disposizione, evitando un eccessiva esposizione ai titoli di Stato: quelli italiani valgono un terzo del totale, una concentrazione eccessiva. La loro contabilizzazione mark-to-market, invece che al costo storico, rende eccessivamente volatili i portafogli. Ma soprattutto manca una vasta campagna consulenziale, come accade in paesi come il Regno Unito o l’Australia, per spiegare ai singoli cittadini “come” aderire a un fondo pensione, ossia con quanto contribuire, scegliendo quale strumento e comparto.
marco.loconte@ilsole24ore.com – 4 dicembre 2011