Il Corriere del Veneto, Andrea Pistore. I dubbi sull’affidabilità dei test rapidi, si sa, sono al centro della controversia sulla individuazione e il tracciamento dei contagiati al coronavirus. Sul fronte dei perplessi (eufemismo) si colloca una dottoressa anestesista padovana, Maria Elena Martinez, che in poco tempo si è ritrovata tutta la famiglia contagiata dal Covid. Lei lavora allo Iov (ma va sottolineato come l’Istituto Oncologico Veneto sia estraneo a tutta la vicenda) e racconta di come il figlio di 5 anni abbia contratto il virus con tutta probabilità alla scuola materna e di come la sua positività fosse sfuggita al tampone rapido a differenza del molecolare a cui il piccolo si è sottoposto ai primi sintomi della malattia: «Tutto sarebbe cominciato a scuola di mio figlio dove un’insegnante è risultata contagiata. Il test veloce aveva dato esito negativo, mentre quello molecolare a cui si è sottoposta la maestra dopo la comparsa della febbre ha ribaltato il responso. Anche mio figlio in un primo momento sembrava negativo ma qualche giorno più tardi, quando sono apparsi i sintomi della malattia e il pediatra ha preteso il molecolare, è emerso che anche lui si era infettato», spiega l’anestesista.
A cascata, a distanza di due giorni, sono comparsi i sintomi anche al marito e all’altro figlio di 11 anni, mentre la terzogenita di 8 mesi è negativa, così come la stessa dottoressa Martinez: «Io sono in maternità da oltre un anno quindi non posso aver portato a casa io il virus – continua – mio marito si è sottoposto al test rapido che non ha individuato il Covid mentre la sua positività è emersa solo successivamente grazie al molecolare. Io stessa in questi giorni ho qualche linea di febbre, potrebbe essere che nel frattempo mi sia positivizzata anche io, sebbene quando ho fatto il test non risultavo infettata». Proprio la sua vicenda personale le ha fatto puntare il dito contro l’utilizzo dei test veloci all’interno delle strutture ospedaliere, un tema emerso già in più occasioni come quando a parlarne è stato il professor Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di microbiologia dell’Università di Padova, o la dottoressa Annamaria Cattelan, direttore dell’unità operativa complessa di Malattie Infettive di Padova. «Il loro impiego per uno screening di massa su grandi numeri va benissimo – sostiene Martinez – come per esempio è stato fatto a Bolzano dove la Provincia ha promosso il test veloce su un campione della popolazione importante e che non aveva avuto contatti diretti con i positivi. Purtroppo con questi kit veloci si perdono almeno 3 contagiati su 10 e il sistema non diventa sicuro ai fini del tracciamento. Mancando questi casi, si rischia solo di aumentare il contagio. Già lo scorso 11 novembre studiosi come Crisanti o Cattelan avevano fatto emergere il problema. Tanti professori dicono di cambiare il metodo per lo screening almeno in certi ambienti come quelli sanitari, altrimenti non usciremo mai da questa fase così complicata. La terza ondata? Mi sembra che la seconda non sia mai stata superata: la prima cosa da fare sarebbe quella di trovare una soluzione per un contact tracing efficace e con meno rischi».