Nel mondo sono stati spesi, solo nel 2013, 22 mld di dollari in aiuti per le politiche sanitarie, ma solo un quinto (circa 4,4 mld) è andato alla ricerca e alla lotta per le malattie e le epidemie che colpiscono in modo massiccio le popolazioni più povere. La stima è stata elaborata da Dean Jamison, economista dell’Università di San Francisco e da Lawrence Summers, ex segretario del Tesoro degli Usa e rettore dell’Harvard University dal 2001 al 2006.
Lo studio, pubblicato su `Lancet´, è il primo che analizza il modo approfondito come i finanziamenti dei donatori per la ricerca e la lotta alle malattie sono spesi e gestiti a livello globale: ad esempio nella prevenzione delle pandemie e nella promozioni di buone pratiche. Sempre nel 2013 – ha evidenziato l’analisi – è stato investito 1 mld di dollari nell’organizzazione e gestione dei rischi legati alla salute, mentre la Banca Mondiale ha stimato che ogni anno servirebbero 3,4 mld per la costruzione di un sistema di gestione delle pandemie per le nazioni a basso e medio sviluppo economico. Secondo gli esperti, inoltre, servirebbero almeno 6 mld di dollari l’anno in ricerca e sviluppo per contrastare efficacemente molte delle patologie trascurare che ancora colpiscono in maniera massiccia alcuni Paesi in via di sviluppo. Uno degli esempi `cattivi´, ovvero di miopia nella gestione dei fondi, citato dagli autori, è l’epidemia di Ebola in Africa Occidentale. «Poco prima dello scoppio dell’emergenza il bilancio dell’Oms per questo tipo di interventi è stato tagliato da 469 mln di dollari a 241 mln – sottolinea la ricerca – Una volta esplosa l’epidemia c’è stata l’approvazione di un fondo speciale di 100 mln di euro. Una scelta che dimostra come i leader mondiale hanno riconosciuto la necessità di affrontate meglio il deficit di finanziamento dell’Oms».
Gli autori della ricerca hanno affermato che nei prossimi due decenni «c’è la probabilità che si verifichino cambiamenti significativi negli aiuti internazionali per l’assistenza sanitaria. La crescita economica – evidenziano i ricercatori – permetterà a diversi Paesi di aumentare la spesa per i servizi sanitari nazionali». L’analisi ha rilevato che il 31% degli aiuti sanitari che oggi vengono elargiti è diretto a nazioni a medio reddito. Una strada – secondo gli autori – che dovrebbe essere sostenuta a livello globale «aumentando i fondi disponibili per questi Paesi che sono già sulla buona strada, si incrementano le possibilità della fasce della popolazione più povere a beneficiare di questi aiuti». A titolo di esempio, gli autori citano la Cina e l’India: «I fondi verso questi Paesi possono permettere a fasce più ampie della società di accedere a farmaci dai prezzi più bassi e a controllare meglio le malattie resistenti agli antibiotici». Infine, Dean Jamison e Lawrence Summers hanno messo in risalto la necessità «di continuare ad aiutare anche nei prossimi decenni lo sviluppo di politiche sanitarie nei Paesi più poveri perché, nonostante la crescita economica in tutto il mondo, nel 2035 ci saranno ancora 22 nazioni nel mondo a basso reddito. Molti di questi Paesi – concludono – sono fragili e dilaniati da conflitti interni, quindi non sono in grado di rispondere adeguatamente alle importanti esigenze di salute dei loro cittadini».
Sanità24 – 14 luglio 2015