Il Ministero per lo Sviluppo Economico ha spedito alle associazioni di categoria una versione aggiornata della bozza del “decreto Renzi” che introdurrà ulteriori modifiche al già ripetutamente vessato decreto legislativo n. 109/92. Un lavoro che non ci piace, per diverse ragioni.
Si annota con disappunto l’assenza di riferimenti alla sede dello stabilimento di produzione e/o confezionamento. Il governo continua a ignorare le diffuse istanze dei cittadini e dei protagonisti della filiera agroalimentare italiana che hanno aderito alla petizione lanciata dal sito Io Leggo l’Etichetta e sostenuta da Il Fatto Alimentare.
I consumatori non potranno più affidarsi alla presenza obbligatoria dello stabilimento per distinguere e scegliere il prodotto realizzato in Italia, poiché il “made in Italy” verrà liberamente confuso con il “made in UE”, soprattutto sulle referenze a marchio del distributore (le cosiddette private label).
La cancellazione dell’obbligo di indicare la sede dello stabilimento costringerà poi le autorità sanitarie, nelle crisi di sicurezza alimentare, a dover attendere gli orari di apertura delle catene distributive per poter risalire all’origine del rischio e mitigarne gli effetti.
Il progetto di decreto introduce l’obbligo generalizzato delle collettività – vale a dire di mense, esercizi di catering, ristoranti, bar – di informare gli utenti sulla presenza o “possibile presenza” degli allergeni a decorrere dai 90 giorni successivi alla pubblicazione del decreto.
Le possibilità sono tre, indicare l’elenco degli allergeni direttamente sul menù o su un apposito registro custodito dal gestore, oppure attraverso un cartello unico (“su un cartello che avvisi della possibile presenza delle medesime sostanze o prodotti che possono provocare allergie o intolleranze e rimandi al personale cui chiedere le necessarie informazioni che devono risultare da una documentazione scritta e facilmente reperibile sia per l’autorità competente sia per il consumatore finale”).
Ma l’introduzione di tale obbligo dovrebbe venire raccordata con apposite previsioni sulle buone prassi e l’autocontrollo al preciso scopo di impedire le contaminazioni incrociate. Poiché altrimenti, i pubblici esercenti si “libereranno del problema” limitandosi ad affiggere nei locali un inutile cartello recante l’elenco completo degli ingredienti allergenici stabiliti nel regolamento.
Lo abbiamo scritto e sostenuto in ogni occasione: già a partire dall’entrata in vigore della prima “direttiva allergeni” (dir. 89/2003/CE) il cosiddetto “Cartello unico degli ingredienti” è fuori legge poiché in palese contrasto con le norme europee di riferimento. Laddove è prescritta un’informazione specifica sulla presenza di allergeni in ciascuno dei prodotti, venduti sfusi o preincartati, offerti in vendita.
La bozza di decreto invece – oltre a introdurre l’ipotesi di cartello unico nei pubblici esercizi, come si è visto – prevede “per i prodotti della gelateria, della pasticceria, della panetteria e della gastronomia, ivi comprese le preparazioni alimentari e della macelleria, nonché per i prodotti tradizionale di cui nel decreto ministeriale del 18 luglio 2000, l’elenco degli ingredienti può essere riportato per tipologia di prodotti sul “cartello unico” di cui al DM 20 dicembre 1994 (…)”.
Si tratta di una previsione agghiacciante perché di fatto priva i consumatori vulnerabili di comprendere – nell’ambito di ciascuna delle tipologie di prodotti – quali possono venire consumati senza incorrere nel rischio di una reazione allergica. Se questa ipotesi sarà confermata, le associazioni dei consumatori avranno ragione di attivarsi presso la Commissione europea e ove del caso alla Corte di Giustizia, per infrazione delle regole comuni e grave danno ai consumatori allergici.
La bozza di decreto si limita a prescrivere l’indicazione di un paio di notizie: denominazione di vendita dei prodotti, gli allergeni, “il nome o la ragione sociale dell’impresa responsabile della gestione dell’impianto”. Ma ciò non basta. Il consumatore che acquista cibi e bevande alla “macchinetta” dovrebbe almeno poter conoscere, prima dell’acquisto, due notizie essenziali:
– gli ingredienti di ciascuno dei prodotti esposti, notizia necessaria a comprendere la qualità degli alimenti (evitando, ad esempio, quelli che contengano olio di palma, o additivi non graditi),
– il nome del produttore e la sede dello stabilimento, almeno nei casi in cui volontariamente apposti, necessari per poter scegliere alimenti autenticamente “made in Italy”.
Poiché i tempi non sono mai brevi, possiamo solo sperare in un ravvedimento operoso dei Ministri interessati, per la salvaguardia dei consumatori e dei produttori italiani.
Dario Dongo – Il Fatto alimentare – 11 dicembre 2014