di Federico Fubini. L’Italia ha un po’ più di tempo di quanto immaginino i profeti di sventura, ma non quanto spera chi crede che una soluzione si troverà comunque. L’economia è entrata in una fase di ripresa che si sta dimostrando leggermente più sostenuta rispetto alle attese, come nel resto d’Europa. Ieri l’Istat, l’istituto statistico, ha confermato che la crescita italiana nel 2016 è stata dello 0,9%: è poco più della metà del ritmo dell’area euro, ma è il secondo anno consecutivo di un recupero che porta il reddito nazionale al livello dell’anno duemila.
Colpisce il graduale cambiamento nella struttura del fatturato. Negli anni della Grande recessione il solo sostegno all’economia veniva dalle esportazioni, la sola area che ha continuato a crescere dal 2011 in avanti mentre erano in ritirata la spesa pubblica, i consumi delle famiglie e gli investimenti. Poi negli anni del governo di Matteo Renzi il paradigma si è ribaltato. L’Istat mostra che l’anno scorso l’export è cresciuto del 2,4%, ma l’import è salito del 2,9%, quindi per il secondo anno di seguito il contributo del settore estero alla crescita è stato negativo: ha sottratto qualcosa al reddito nazionale.
L’equazione si è invertita anche sugli altri fattori. La spesa delle famiglie è cresciuta di quasi l’1% per il secondo anno di seguito, dopo una lunga recessione; gli investimenti si sono ripresi e persino la spesa pubblica, per la prima volta da anni, si è dimostrata un fattore espansivo.
In altri termini, l’Italia dell’alto debito pubblico e delle banche cariche di crediti cattivi oggi cresce grazie al suo motore a combustione interna. Resta un punto interrogativo sulla sostenibilità di un modello simile per un Paese così fragile. Senz’altro esso è stato alimentato dagli sgravi fiscali alle famiglie: se si stima il bonus da 80 euro come taglio alle tasse, il calo della pressione tributaria dal 2013 è dell’1,3% del reddito nazionale. In sostanza sono stati impiegati in tagli alle tasse (in gran parte per le famiglie) i risparmi sugli interessi sul debito che oggi esistono grazie agli interventi della Banca centrale europea, ma domani forse non ci saranno più. Nel frattempo la spesa corrente dello Stato nel 2016 è persino aumentata dell’1,3% per gli aumenti dei consumi e degli stipendi dell’amministrazione (mentre gli investimenti pubblici sono continuati a crollare).
L’Italia dunque prosegue la sua ripresa in modo appena più vivace del previsto, ma su basi incerte. Per varie ragioni potrebbe esserci tempo, prima che i mercati mettano di nuovo alla prova la tenuta del debito. In primo luogo la Bce potrebbe restare piuttosto attiva anche nel 2018 negli acquisti di titoli dei governi più indebitati, come indirettamente suggerito dai suoi verbali pubblicati ieri. Ma soprattutto, è difficile che uno scenario di violenta avversione al rischio di credito si crei durante una fase ascendente del ciclo economico; le crisi finanziarie di solito si innescano quando gli squilibri vengono messi a nudo dalla frenata di un’economia.
L’Italia dunque entra nel 2017 con un po’ più di margine di manovra. Ma non può permettersi di sprecarlo: il costo del debito pubblico in interessi passivi è di circa il 3,7%, mentre la somma di crescita reale del debito e inflazione non arriva al 2,5%. Ciò significa che il debito pubblico continua automaticamente a salire rispetto alle dimensioni dell’economia. Gli squilibri del sistema non sono spariti con la fine della recessione.
Il Corriere della Sera – 2 marzo 2017