Non è solo questione di soldi. Il rinnovo dei contratti nella Pa è un’occasione per cambiare il settore pubblico. Per le amministrazioni che si lamentano di non avere una sufficiente autonomia e flessibilità. Per le parti sociali che si possono riscattare e dimostrare che il contratto collettivo è uno strumento di efficienza. Dopo il regalo di fiducia che il Governo ha fatto alla contrattazione con la riforma Madia, è necessario che l’opportunità non sia sprecata. L’obiettivo è chiaro: rendere la gestione delle risorse umane nella Pa certa, semplice e moderna.
Il primo bisogno, di certezza e chiarezza è nel superamento dei dubbi sulla divisione delle materie oggetto di contrattazione, sulla partecipazione sindacale, sui tempi della contrattazione, sulla determinazione del monte salari e dei fondi, sull’utilizzo della parte variabile e sulla remunerazione della performance. Il rischio, a ridosso di elezioni politiche importanti, è di fare un mero recupero economico, in termini di incrementi salariali, e un mero recupero giuridico, in termini di fonti normative. Anche il riequilibrio tra legge e contratto non deve tradursi nel vecchio potere di interdizione del sindacato nella gestione, ma in una spinta all’ innovazione.
Il recupero più importante, dopo anni di blocco, è quello manageriale. Mentre nel privato si sviluppa una funzione “risorse umane” (Hr) al passo con le innovazioni tecnologiche e le idee di valorizzazione del capitale umano, nel pubblico ci si è consolidati sull’amministrazione del personale. Servirebbe uno scatto di orgoglio delle parti, con la raccolta di due sfide.
La prima è collegata al forte invecchiamento del personale (età media superiore ai 51 anni) e all’obsolescenza delle competenze. Occorre una ricognizione delle competenze presenti e di quelle necessarie, per guidare le programmazioni dei fabbisogni, ma soprattutto per avviare dei veri piani di formazione triennale. Ma sappiamo bene che il reclutamento dei prossimi tre anni sarà condizionato dalla stabilizzazione dei precari e non ci saranno spazi per contrastare invecchiamento e gap di competenze. A maggior ragione si dovrà puntare sulla formazione vera.
La seconda sfida riguarda la disaffezione di gran parte del personale al proprio lavoro, e quindi il suo coinvolgimento in un processo di innovazione da tutti ritenuto, almeno a parole, improcrastinabile. Sarebbe utile collegare parte della retribuzione accessoria a processi di modernizzazione, che possono venire soprattutto dal basso e non attraverso la Gazzetta Ufficiale. Piani di innovazione che evidenzino gli obiettivi di miglioramento dei servizi sarebbero uno strumento di riforma ma anche di coinvolgimento del personale. Alcune sperimentazioni dello smart working possono essere una scintilla in questa direzione.
Il riscatto della contrattazione collettiva passa da queste sfide. Altrimenti il divario con il settore privato, 24 anni dopo la privatizzazione, sarà incolmabile. Sarebbe la certificazione del fallimento della più importante delle riforme, quella del 1993, che avrebbe dovuto cambiare il settore pubblico.
Francesco Verbaro – Il Sole 24 Ore – 30 ottobre 2017