Tito Boeri e Roberto Perotti, La Repubblica. La vicenda dei vaccini antinfluenzali in Lombardia è una storia di ordinaria amministrazione locale, ma che fornisce spunti di riflessione di interesse generale sul funzionamento della macchina pubblica. Abbiamo studiato le gare per il vaccino in Lombardia e in Veneto, due regioni ad amministrazione leghista, per non esporci all’accusa di voler screditare un partito specifico. Ecco la nostra ricostruzione, basata sui documenti ufficiali e su interazioni con medici, farmacisti, giuristi, esperti di gare pubbliche e amministratori regionali.
Scusate i dettagli, ma sono fondamentali per capire. Per semplicità ci concentreremo sui tre tipi di vaccini standard per adulti: inattivato split, inattivato adiuvato (per over 65) e vaccino da colture cellulari di rene canino, potenzialmente più efficace e solitamente più costoso. Come vedremo, il mercato per questi vaccini è dominato, almeno per Lombardia e Veneto, da due sole ditte: Sanofi e Seqirus.
La Lombardia si muove presto con una gara in febbraio per un generico vaccino tetravalente, poi soppressa perché il prezzo base è di 4,5 euro e l’unica offerta pervenuta è di 5,9 euro. Niente di male: la Regione «ha sondato il mercato» cercando di minimizzare la spesa. C’è ancora tempo. In aprile viene indetta una nuova asta, prorogata e poi revocata a fine maggio, ufficialmente per indirne una più grande. Infatti il 25 maggio la Lombardia indice una gara per due milioni di dosi per adulti con base d’asta di 5,9 euro (come l’unica offerta alla prima gara), ma non la aggiudica per mancanza di offerte.
Nel frattempo, il 21 maggio la Regione Veneto indice una gara e aggiudica quattro lotti su tutti e tre i tipi di vaccino, con prezzi da 5,22 euro per il vaccino adiuvato a 7,50 per quello da colture cellulari. All’inizio di giugno il Veneto ha quindi già coperto tutto il proprio fabbisogno di un milione e trecentomila dosi. La Lombardia ha esattamente il doppio degli abitanti e della popolazione a rischio del Veneto, quindi ha bisogno almeno del doppio di dosi. A metà giugno indice una gara per un milione e ottocentomila dosi; ne aggiudica solo 400.000 sostanzialmente agli stessi prezzi del Veneto.
A questo punto i tempi cominciano a stringere. A fine giugno nuova gara; il primo lotto, per il vaccino adiuvato, è per due milioni e mezzo di dosi, ancora al prezzo base di 5,9 euro. Ne aggiudica (ma solo a inizio settembre!) la metà, un milione e trecentomila, alle solite due ditte; entrambi sono vaccini quadrivalenti, ma ottocentomila dosi sono aggiudicate a quasi il triplo del prezzo base, 15,45 euro. La Regione ha l’acqua alla gola. D’ora in poi non specificherà più che tipo di vaccino viene richiesto: qualsiasi tipo va bene in emergenza. Un’asta di inizio agosto, per settecentomila dosi sempre al prezzo base di 5,9 euro, viene soppressa. A inizio settembre nuova gara, ora il prezzo base aumenta a 10 euro, ma l’unica offerta prevede la consegna oltre i termini e la gara non è aggiudicata. Poi l’ultima gara, il 30 settembre, sempre al prezzo base di 10 euro, per un milione e mezzo di dosi. Si chiude nel tempo record di una settimana, con cinquecentomila dosi aggiudicate di vaccino split, quello pagato da Veneto e Lombardia 5,7 euro in maggio e giugno: centomila da una ditta cinese a 12 euro (ma sabato si apprende che l’Agenzia del farmaco non ha concesso l’autorizzazione a commercializzarle), e quattrocentomila da una ditta svizzera a quasi il triplo del prezzo base, 26 euro.
Alla fine la copertura minima raccomandata del 75 per cento è assicurata, anche se non per alcune categorie che sarebbe stato prudente coprire. Ma i tempi di consegna dei vaccini si sono allungati. All’inizio della stagione influenzale, nella regione più colpita dal coronavirus, i medici di base e le farmacie non hanno ancora ricevuto i vaccini, e c’è molta confusione su a chi rivolgersi e come procedere. Inoltre, avendo pasticciato per mesi, la Lombardia subisce il diradarsi dell’offerta e il conseguente aumento dei prezzi: con una struttura della popolazione simile, alla fine paga un prezzo medio per dose di 14,4 euro, contro i 5,4 del Veneto.
La vicenda offre tre spunti di riflessione. I vertici della sanità lombarda, a cominciare dall’assessore Gallera, non hanno certo fornito una prova esemplare durante l’emergenza Covid. Avrebbero avuto tutti gli incentivi per non fallire con i vaccini antinfluenzali. Una prova non insormontabile: i tempi della stagione influenzale sono perfettamente prevedibili e si sapeva da tempo che in tutta Europa quest’anno la richiesta di vaccini sarebbe stata superiore. Come ci hanno confermato fonti interne alla Regione Lombardia, c’è stato un corto circuito tra struttura e assessore. La prima lezione è che i politici non devono limitarsi a «dare l’indirizzo politico»: un ministro, un assessore devono «sporcarsi le mani». Soprattutto dopo i primi campanelli d’allarme, Gallera avrebbe dovuto alzare il telefono, chiedere «come sta andando la campagna vaccini antinfluenzali? », e prendere i provvedimenti necessari. Alla lunga, una struttura non può funzionare bene se l’assessore, il ministro non sono percepiti dall’apparato come informati, autorevoli e competenti.
Secondo, la Lombardia è ritenuta una regione ben amministrata, con un apparato amministrativo solido e competente. Eppure davanti a un cambiamento in un processo stranoto è andata nel pallone. L’Italia ha ora poco più di quattro mesi per trovare il modo di spendere 200 miliardi (5000 volte la spesa totale per vaccini in Lombardia!) in tre anni. Gran parte di questa spesa dovrà essere allocata con gare, riguardanti argomenti – come la digitalizzazione – su cui l’apparato pubblico a livello locale ha competenze quasi nulle. La capacità di spesa di una pubblica amministrazione è un concetto importante ma dimenticato: è facile ubriacarsi perché ci arrivano 200 miliardi, ma quando torneremo sobri ci accorgeremo del caos che inevitabilmente governerà il processo. Tre anni per spendere i fondi, e più di quattro mesi per programmare come spenderli sono troppo pochi.
Terzo, fare le gare d’appalto è complicato. Ci vogliono persone competenti che s appiano valutare le condizioni di mercato e gli incentivi delle imprese private, soprattutto quando la concorrenza è limitata, come nelle gare con case farmaceutiche. Le gare per i vaccini avrebbero potuto essere gestite fin da subito con «procedure competitive con negoziazione » per affrontare situazioni in cui sia il prezzo che la disponibilità sono in costante evoluzione mantenendo una certa flessibilità nel negoziare le offerte. Avrebbero dovuto e potuto tenersi su scala nazionale. La Consip (i cui vertici sono da tempo vacanti) è stata creata apposta per questo. In altri paesi le gare per i vaccini antinfluenzali sono state gestite a livello nazionale, concludendole prima e ottenendone di più (da noi stiamo a fatica raggiungendo i livelli minimi quando sarebbero necessarie molte più dosi) e a condizioni più vantaggiose. Nonostante il titolo V e le competenze sui vaccini regionalizzate, non ci sono vincoli normativi a gare centralizzate e le condizioni di emergenza le avrebbero più che giustificate. Non ci sono ragioni per iniettare a Milano un vaccino diverso da quello offerto a Palermo a una persona della stessa età e nelle stesse condizioni di salute. E anche se non si voleva percorrere la strada della gara nazionale, sarebbe stato possibile aggregare più regioni nelle gare, seguendo l’esempio di Lazio e Calabria. Anche in questo caso la lezione va al di là del caso dei vaccini.
In Italia abbiamo 32.000 stazioni appaltanti. Vengono i brividi a pensare come gestiranno le risorse del Recovery Fund. Se non ne riduciamo il numero, non riusciremo mai a spendere bene quei soldi.