L’Istat ha certificato che la spesa monstre per i bonus edilizi ha fatto schizzare il deficit oltre il 7% anche nel 2023. E ci sono anche le incognite sulla crescita e sull’inflazione
Giuseppe Colombo
Una strada tortuosa. Instabile. Sono troppe, ancora, le incognite che pendono sui conti pubblici italiani per “festeggiare” gli ultimi dati dell’Istat come un fattore di stabilità, anche solo nel breve periodo. Il recente flash dell’Istituto nazionale di statistica ha certificato un’esplosione del deficit nel 2023: in rapporto al Pil è arrivato al 7,2%, quasi due punti in più rispetto al 5,3% stimato dal governo nella Nadef, lo scorso settembre. «Il peggioramento è derivato da un aumento degli investimenti pubblici, pari a 7-8 miliardi, e dalla bomba dei trasferimenti in conto capitale che contengono gli incentivi di Transizione 4.0 e una maggiore cubatura del Superbonus », spiega l’economista Fedele De Novellis, partner di Ref Ricerche. E questo è un bene, nel senso che le tossine dei bonus edilizi sono state scaricate sull’anno scorso, “alleggerendo” quelli successivi, almeno in termini di indebitamento.
Ma la maxi agevolazione al 110% è stata anche la benzina che ha permesso al Pil di arrivare, sempre secondo le previsioni dell’Istituto, allo 0,9%, un decimale in più rispetto a quanto ipotizzato dall’esecutivo lo scorso autunno. Ora che i rubinetti del Superbonus sono stati stretti, i pro e i contro dovranno trovare un nuovo equilibrio.
Bisogna partire da qui per capire quali sono le opportunità e i rischi del prossimo biennio. Le sfide già ci sono. Incrociano il bilancio nazionale con le nuove regole europee. E così la manovra da scrivere in autunno, per il 2025, sa già che dovrà trovare 14 miliardi per confermare il taglio del cuneo fiscale e la sforbiciata all’Irpef per i redditi medio-bassi. Con lo sguardo rivolto a Bruxelles, dove entrerà nel vivo la messa a punto dei piani di risanamento che scaturiscono dal nuovo Patto di stabilità e crescita. Qui la partita è anche politica: molto dipenderà dall’assetto della Commissione europea che uscirà dal voto di giugno e quindi dal potere negoziale che l’Italia saprà ricavarsi nell’interlocuzione con l’Ue sulla deroga alla correzione (0,5% del deficit strutturale ogni anno) che sarà valida tra il 2025 e il 2027, a patto però di correre con l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Se queste sono le sfide, è importante, come si diceva, capire come ci si arriva. E qui ritorna in ballo lo stato di salute dei conti nel 2023. Alla fine dell’anno c’è stata una coda che potrebbe rivelarsi velenosa, infettando quest’anno e, a cascata, la programmazione per il 2025. Lo spiega sempre De Novellis: «A novembre-dicembre sono state emesse fatture su lavori edilizi, legati ai bonus, che non sono stati eseguiti: se, nella suanuova classificazione, Eurostat dirà che la competenza economica poggia sull’avanzamento dei lavori, allora 1/3 di queste risorse andrà scaricato sul 2024». E quindi all’effetto migliorativo sul saldo del 2023 seguirà una dinamica peggiorativa su quello del 2024. Di quanto? «Circa dieci miliardi, o anche più, potrebbero essere spostati dall’anno scorso a quest’anno, peggiorando quindi il saldo del 2024».
Le altre due incognite che vanno analizzate per capire quanto i conti riusciranno a stabilizzarsi o meno sono il Pil e l’inflazione. Gli ultimi dati hanno restituito una sorpresa positiva sul fronte del prodotto interno lordo: 4,8 punti in più di investimenti nelle costruzioni, ma ora la leva del Superbonus si farà meno solida. Di contro il trend degli investimenti pubblici dimostra che l’Italia è sul punto di schiacciare l’acceleratore sul Pnrr: dopo la revisione validata dalla Commissione Ue, il Piano è chiamato a un impegno di spesa imponente soprattutto nel 2025-2026, in virtù dello slittamento di molti impegni che prima erano stati spalmati in modo più uniforme sulla timeline del Recovery. Certo una proroga della scadenza, ora fissata nell’estate 2026, renderebbe la messa a terra degli investimenti più facile, ma il tema è ancora un tabù in Europa. E poi ci sono i prezzi, che sono in flessione. La super inflazione ha fatto lievitare le entrate. «Normalmente – sottolinea l’economista di Ref Ricerche – questo effetto dovrebbe essere neutro perché le spese dovrebbero adeguarsi all’inflazione: questa cosa, però, è avvenuta in modo molto graduale sia perché i rinnovi dei pubblici non hanno portato ad aumenti proporzionali all’inflazione sia perché non sono stati fissati target di spesa che inglobano tutta l’inflazione, come avvenuto con la sanità; anche l’indicizzazione delle pensioni non è stata completa, con tagli in termini reali, anche significativi, a quelle medio-alte». E ora che l’inflazione è in discesa? Le entrate rallenteranno, con effetti questa volta sfavorevoli sui saldi. Eccole le incognite che affollano il sentiero stretto dei conti pubblici italiani.
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