Il Sole 24 Ore, Andrea Goldstein. Nel marzo 2020 erano state le mascherine a diventare improvvisamente il simbolo del declino dell’Occidente. Difficile dimenticare l’immagine di dignitari europei in trepidante attesa dei cargo con il prezioso carico di materiali per difendersi dal Covid-19, e consentire alla Cina di fronteggiare il discredito per la sua gestione della pandemia. In questo primo scorcio del 2021, è il vaccino che è assurto a unità di misura della potenza geopolitica. Chi lo sviluppa, chi lo produce, chi lo acquista – la risposta a questi quesiti, che un tempo avrebbero interessato gli esperti di logistica farmaceutica, tengono ormai svegli gli analisti di politica internazionale.
Si confrontano in questa tenzone diversi modelli di capitalismo. È alla velocità del fulmine (warp speed) che il governo americano, utilizzando fondi destinati alla salute ma anche alla difesa, ha chiesto ai laboratori di trovare un vaccino. E questa alleanza pubblico-privato è stata all’altezza, dato che sono bastati pochi mesi per ottenere un risultato che di solito richiede come minimo un lustro. In Cina e Russia, invece, il vaccino è prevalentemente di Stato. Sono imprese pubbliche Sinopharm, che ha sviluppato il BBIBP-CorV con il Wuhan Institute, e il Gamaleya Institute, produttore dello Sputnik V. Se Sinovac Biotech è invece quotata al Nasdaq, ha però caratteristiche peculiari: sede in un paradiso fiscale nei Caraibi, governance opaca (il principale azionista è incorso nelle ire della Sec) e, soprattutto, esporta il suo CoronaVac nei Paesi prioritari per la strategia cinese di cooperazione Sud-Sud.
La lista è lunga, comprende paesi del G20 (Brasile, Indonesia e Turchia), altre economie emergenti (Marocco e Perù) o addirittura ricche (Emirati Arabi) e Paesi decisamente più poveri come quelli africani. Ad onor del vero, le imprese cinesi sono andate nel Global South anche per trovare individui su cui testare il vaccino, cosa che (fortunatamente) non è più possibile in Cina dove il virus è circoscritto. I russi invece non possono adoperare questa giustificazione, la loro diplomazia del Covid-19 serve per presentare la Putinomics sotto luce migliore che la stagnazione in cui ha gettato l’economia. Gli effetti positivi del vaccino russo sono dimostrati scientificamente (i risultati sono stati pubblicati su The Lancet), mentre le procedure di certificazione cinesi sono tuttora ammantate dal mistero. Anche in questo caso, il vaccino segue logiche politiche: emblematici in particolare Argentina, un G20 che si è progressivamente marginalizzato, e Ungheria, che negli stessi giorni in cui comprava lo Sputnik V sostituiva l’università di Soros con la Fudan di Shanghai.
A gettarsi nella diplomazia del vaccino sono anche altri Paesi del Sud. Cuba è in fase 2 con quattro progetti – tra cui i molto evocativi Soberana 1 e 2 – e collabora con Iran (dove i casi abbondano e quindi è più agevole procedere ai test clinici) e Venezuela. Il Serum Insitute di Pune è il fulcro del tentativo indiano di arginare l’espansione cinese nella sua sfera d’influenza. È da lì che stanno partendo milioni di dosi, donate a Bangladesh, Sri Lanka e altri Paesi limitrofi, ma non al Pakistan. Che non a caso è uno dei potenziali fruitori di una recentissima iniziativa saudita.
L’Europa ha scelto la strada dell’integrazione nel passare gli ordini per il vaccino, ma si dibatte in problemi che sembrano scelti apposta per fornire munizione ai sovranisti (nostrani, non all’Avana). Volendo spuntare condizioni migliori, il contratto con le case farmaceutiche è stato firmato con tre mesi di ritardo rispetto al Regno Unito e Israele, e ciò sta costando probabilmente di più di quanto si sia risparmiato. La risposta ai ritardi nelle forniture non è stata molto più efficace, dato che la proposta di vietare l’export dei vaccini al di fuori dell’Ue non solo era discutibile, ma ha reso necessaria un’imbarazzante marcia indietro. Un mix che indebolisce l’appello lanciato da Merkel a Davos di rafforzare il multilateralismo nella lotta al Covid-19 e alle sue varianti.
Eppure non c’è altra forma per debellare la pandemia e uscire dalla crisi economica. Ci sono motivi etici e pratici per riconoscere che il combattimento col virus non verrà vinto fino a che non sia messo in condizione di non nuocere ovunque, nei Paesi ricchi come in quelli poveri. Fino a quando ci saranno focolai da qualche parte, non ci sarà ritorno alla normalità, anche perché il sorgere di varianti renderebbe inutile lo sforzo di vaccinazione. Cooperazione globale in questo frangente significa finanziare adeguatamente l’iniziativa Covax (che ha bisogno di vari miliardi nel 2021) e trovare la formula politicamente accettabile per convincere l’opinione pubblica nel Nord che le eccedenze di medicinali vanno immediatamente donate al Sud. Al G20 di Roma a novembre, dal primo ministro italiano, chiunque sia, si attenderà leadership per arrivare a un accordo che soddisfi interessi spesso divergenti – e ci vorrà molto più che un salutino con la manina per dimostrarla.
Andrea Goldstein