La spesa sanitaria degli italiani per la prima volta ha sfondato quota 40 miliardi. Un record assoluto che si traduce in una amara realtà: ormai i cittadini per curarsi mettono di tasca propria un euro su quattro del totale di quanto si spende in Italia per la Sanità visto che il Servizio sanitario, con le tasse che paghiamo, ne spende altri 130 miliardi. Dopo la frenata del 2020 quando in piena pandemia la spesa sanitaria privata era crollata a 30,7 miliardi (-11,6%) l’anno successivo è risalita a 37,16 miliardi e poi appunto ha raggiunto i 40,26 miliardi nel 2022 con un aumento di oltre l’8 per cento. Un segnale questo dell’esplosione della domanda di salute che ha mobilitato tra spesa pubblica e privata quasi 170 miliardi, come ha appena certificato la Ragioneria generale dello Stato nel suo ultimo rapporto sulla spesa sanitaria pubblicato lo scorso dicembre. Si tratta di una montagna di soldi che però non sembra sufficiente a soddisfare la richiesta di cure visto che l’Istat sempre nel 2022 ha registrato un dato allarmante e cioè che oltre 4 milioni di italiani (il 7%) hanno rinunciato a curarsi per vari motivi: se nel 2020 e in parte anche nel 2021 la ragione principale per rinunciare ad andare in ospedale e negli ambulatori era il timore di contagiarsi con il Covid nel 2022 il primo motivo di rinuncia – per quasi 2,5 milioni di italiani – è stato quello delle liste d’attesa che si sono allungate con la pandemia seguito poi dalle ragioni economiche (per meno di 2 milioni di italiani).
Chi può dunque – come certifica la Ragioneria generale dello Stato – paga di tasca propria magari per evitare le liste d’attesa e lo fa in particolare per visite specialistiche ed interventi che, in linea con gli anni precedenti, continuano ad avere un peso prevalente (45,8%) sul totale dei 40 miliardi di spesa a carico dei privati. Mentre farmaci e dispositivi medici assorbono un altro 25 per cento. Tra le visite specialistiche la parte del leone la fanno quelle dal dentista che rappresentano circa il 30 per cento.
A confermare questo trend ormai inarrestabile è anche l’ultimo rapporto sulle politiche della cronicità di Cittadinanzattiva dal quale emerge che a causa dei lunghi tempi di attesa e della mancata copertura da parte del servizio sanitario di alcune prestazioni, la gran parte dei cittadini con patologie croniche e malattie rare – circa 24 milioni di italiani – sono costretti a sostenere spese private: il 67,8% lo fa per visite specialistiche effettuate in regime privato o in intramoenia; il 60,9% per l’acquisto di parafarmaci; il 55,4% per esami diagnostici; il 44,6% per l’acquisto di farmaci necessari e non rimborsati. Tra chi ha bisogno delle cure a domicilio, il 47,8% reputa il numero di ore di assistenza erogati inadeguato e il 23,9% parla di sospensione o interruzione del servizio. Non va meglio con la riabilitazione: la metà dei pazienti ritiene i cicli insufficienti e 1 su 3 segnala la mancata erogazione del servizio.
La manovra in realtà stanzia i fondi (280 milioni l’anno) per pagare di più gli straordinari di medici e infermieri da destinare in particolare all’abbattimento delle liste d’attesa (oltre ad aumentare il tetto di spesa per ricorrere ai privati). Ma il rischio è che questa misura faccia flop come emerge anche da una indagine appena realizzata da Fadoi (la Federazione dei medici internisti ospedalieri) su un campione rappresentativo di camici bianchi per i quali la formula straordinari meglio pagati uguale meno liste di attesa è giudicata efficace solo dal 9,87% degli intervistati, mentre per il 41,18% serve assumere personale e per il 19,92% organizzare meglio le attività. Per il 27,7% andrebbero invece ridotte le prescrizioni e solo per l’1,33% bisognerebbe ricorrere di più al privato convenzionato.
Dai gettonisti alle liste d’attesa: il Ssn resta ancora un grande malato. I fondi in manovra sono un palliativo, al sistema serve una cura da cavallo
Da una parte il grande spreco dei gettonisti pagati a peso d’oro – anche più di 1500 euro per coprire un turno di 12 ore – che rischiano di restare nelle corsie fino al 2025. Dall’altra le eterne liste d’attesa che condannano come ha ricordato il capo dello Stato Sergio Mattarella nel discorso di fine anno a tempi per visite ed esami «inaccettabilmente lunghi» tanto da essere diventati dopo il Covid la prima causa di rinuncia alle cure costringendo, chi può permetterselo, a pagare di tasca propria (si veda articolo a fianco). Eccoli i sintomi forse più evidenti della malattia che colpisce da tempo il Servizio sanitario nazionale costretto oggi ad affittare a caro prezzo il personale o a provare a mantenere in servizio i medici fino a 72 anni per non chiudere i battenti (l’estensione dell’età pensionabile potrebbe arrivare con un emendamento al milleproroghe).
Il Ssn che proprio nei giorni scorsi ha compiuto 45 anni assomiglia ormai più a un malato cronico che a un signore di mezza età. Acciacchi e mali di vecchia data sono sempre lí a fiaccarlo: dal sotto finanziamento alla carenza di personale fino alle diseguaglianze sulle cure che spaccano Nord e Sud. Partiamo dai fondi: l’ultima manovra appena varata dal Parlamento ha aggiunto 3 miliardi nel 2024 e poi 4 miliardi nel 2025 e 4,2 miliardi nel 2026. Una boccata d’ossigeno che vale un aumento di circa il 3% per il Fondo sanitario che raggiungerà con le nuove risorse la cifra record di 136 miliardi. Una cifra questa che non basta però a metterci in linea almeno con i Paesi europei più vicini visto che in termini di spesa sanitaria pubblica pro-capite (con i nostri 3255 dollari nel 2022) siamo ben al di sotto a esempio della Germania che spende il doppio di noi (6930 dollari) o della Francia (oltre 5mila) e sotto alla media europea (4128 dollari) e a quella Ocse (3899 dollari). Sotto di noi solo Spagna, Grecia e Portogallo. Il problema – va detto – viene da lontano, da oltre 15 anni e cioè da quando tutti i Governi di ogni colore hanno tagliato o non finanziato in modo adeguato il Ssn.
A pagare le spese del prolungato sotto finanziamento è stato soprattutto il personale sanitario – almeno 40mila i medici, gli infermieri e gli altri operatori in meno in un decennio con un lieve rialzo solo grazie al Covid – su cui pende da quasi 20 anni un odioso tetto di spesa: in pratica per assumere non si può spendere più di quanto speso nel 2004 meno l’1,4 per cento. Un vincolo, questo, che ha pesato provocando una carenza cronica di operatori e che ha contribuito per chi lavora tra turni stressanti e stipendi fermi per anni alle fughe all’estero o verso il privato – quest’anno se ne stimano 7mila – in un malessere crescente culminato nei recenti scioperi a dicembre contro la manovra che saranno replicati ora a gennaio. Da qui la scorciatoia dei gettonisti – medici e infermieri in affitto da cooperative – pagati profumatamente per coprire i buchi in corsia e che sono dilagati negli ultimi anni tanto che il ministro della Salute Orazio Schillaci a maggio scorso ha deciso con il decreto bollette una stretta provando a vietarli gradualmente. Un addio però che potrebbe allungarsi addirittura al 2025 vista l’interpretazione estensiva che sembra prevalere nell’applicazione delle norme: dopo gli affidamenti fatti entro 12 mesi dall’entrata in vigore del decreto (quindi entro maggio 2024) ci sarà la possibilità di usufruire di altri 12 mesi per nuovi affidamenti stavolta in base alle linee guida che il ministero della Salute sta per licenziare – dopo aver sentito l’Anac – fissando prezzi calmierati per pagarli (si ipotizza un massimo di 70-80 euro l’ora lordi). Intanto per ora solo la Lombardia ha deciso di dire addio ufficialmente ai gettonisti.
Tra i mali più atavici c’è poi quello del divario di cure, soprattutto tra Nord e Sud: secondo l’ultimo monitoraggio del ministero della Salute sul rispetto dei livelli essenziali di assistenza, le cure cioè che deve garantire il Ssn in tutto il Paese, emerge che tra le 14 Regioni che superano la soglia della sufficienza ci sono solo tre Regioni del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata) e tutte si trovano a fondo classifica. Una differenza che spinge i pazienti meridionali a fare le valigie per curarsi negli ospedali del Centro-Nord: nel 2022 questa migrazione – soprattutto da Calabria, Sicilia e Campania – è costata tra ricoveri e visite circa 3 miliardi incassati in particolare da Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Toscana che sono le destinazioni sanitarie più gettonate.
Ecco perché i soldi in più in manovra – destinati soprattutto a rinnovare i contratti dei sanitari per provare ad arginarne la fuga – potrebbero rilevarsi solo un palliativo per mantenere in vita un Servizio sanitario nazionale che avrebbe bisogno invece di una cura da cavallo.
Marzio Bartoloni – IL Sole 24 Ore