Il Sole 24 Ore, Barbara Gobbi. «Rischiamo di trovarci tra l’incudine e il martello, con una super pressione sugli ospedali senza però poter azzerare il flusso di pazienti come è stato fatto in primavera, quando si decise di “chiudere” il Paese. Ma solo un nuovo lockdown oggi riuscirebbe a frenare il flusso di malati che sta ripopolando gli ospedali e in ogni caso avrebbe effetto dopo 3-4 settimane». Si prepara di nuovo alla trincea Marco Vergano, anestesista rianimatore all’ospedale San Giovanni Bosco di Torino e coordinatore del Gruppo di studio di bioetica della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti).
Erano giorni drammatici: c’è il rischio che vi troviate di nuovo a dover scegliere tra i pazienti da “intubare”?
Quel documento era nato per offrire un sostegno ai colleghi in prima linea negli ospedali più pressati in una situazione di profondo squilibrio tra richieste di cura e risorse, ora il rischio di trovarci di nuovo in condizioni simili in molti ospedali è molto concreto. Con la differenza che oggi il virus è presente in tutte le Regioni. E continua a correre: siamo già lontanissimi da inizio settembre quando la pressione sulle terapie intensive era praticamente azzerata. Mentre da qualche giorno abbiamo superato i mille pazienti in terapia intensiva. Per questo il nostro documento va confermato nella sostanza: quando ci si trova davanti a scelte tragiche, una guida bisogna averla.
Siamo già in sovraccarico?
Nelle ultime due settimane la pressione è salita sia nei Pronto soccorso sia nei reparti che nelle terapie sub intensive e intensive. C’è sovraffollamento, difficoltà a separare i pazienti Covid dai “non Covid”.
C’è una ricetta possibile per scongiurare il ripetersi dello scenario di marzo-aprile?
Se potessi guardare solo al mondo ospedaliero, la soluzione sarebbe il lockdown e il blocco dei contatti sociali. Io come i miei colleghi chiederemmo di chiudere adesso il Paese, ma noi per primi siamo consapevoli che avrebbe risvolti sociali altissimi.
E allora, quali soluzioni?
L’unica è recuperare colleghi da altre aree dell’assistenza, così come si fece allora. Le forniture e le apparecchiature elettromedicali si possono acquistare, ma gli operatori vanno formati e da questo punto di vista, rispetto a sei mesi fa, niente è cambiato. Non si possono creare dal nulla infermieri di area critica o medici dell’urgenza o ancora anestesisti rianimatori ed è per questo che molti concorsi vanno deserti. Se anche volessimo investire sul personale tutte le risorse messe a disposizione dal governo, gli effetti si vedrebbero almeno tra tre-quattro anni.
E gli specializzandi?
Li abbiamo arruolati durante la prima ondata e sono già sul campo. Né si possono importare professionisti dall’estero, visto che tutti i Paesi sono impegnati contro la pandemia.
Quindi resta la chance di attingere alle altre discipline?
Certo ed è quello che sta già di nuovo succedendo in diversi ospedali, così come nel mondo del resto ma parliamo comunque di un bacino limitato, sia perché la formazione di un collega che fino a ieri si è occupato di altro richiede mesi sia perché si sottraggono forze ad altri reparti. In primavera abbiamo garantito il raddoppio delle terapie intensive sottraendo risorse ad altri servizi, come la chirurgia elettiva, che è stata quasi azzerata in moltissime realtà. Fino ad oggi abbiamo raschiato il fondo del barile tra specializzandi, pensionati richiamati in servizio e la chiusura di attività non essenziali. Però le persone sono quelle e i numeri non si possono magicamente moltiplicare quando si tratta di medici e infermieri esperti.
Consiglierebbe il suo lavoro a un giovane collega?
Meglio non farla, questa domanda, all’inizio di una seconda ondata pandemica.