Uno strillo acuto, un inseguimento a denti sguainati e un cucciolo che saltella con la zampa dolorante stretta al petto. «Ecco un classico esempio di aggressione. Ne abbiamo studiati e catalogati 15mila in un anno per interpretare la vita sociale di questi primati» spiega l’etologo del Cnr Gabriele Schino.
Prima ancora di appoggiarsi al parapetto del “Villaggio dei macachi”, al Bioparco di Roma, la scena si ripete una manciata di volte. Perché proprio questa specie è finita sotto la lente dei ricercatori? «I macachi del Giappone sono cattivi, nepotisti, intolleranti, aggressivi. Se vengono picchiati, anziché vendicarsi con l’aggressore che è più forte lo fanno magari con suo figlio che è più debole» spiega Schino. Subito, però, il ricercatore si riprende, con lo sguardo che si apre in un sorriso rivolto alle scimmie lì in basso. «In realtà sono animali stupendi. Li studio da anni. Certo, nella società umana i loro comportamenti potrebbero essere considerati difetti. Ma dopo un litigio sanno anche fare la pace. E tracciare equivalenze fra noi e loro sarebbe scorretto».
Le 15mila aggressioni dei macachi di Roma come riflesso della loro struttura gerarchica hanno permesso ai ricercatori del Cnr di pubblicare uno studio sulla rivista Royal Society Open Science,
in collaborazione con l’Università tedesca di Gottinga. «Per noi uomini ricostruire il nostro posto nella società è semplice, perché usiamo il linguaggio » spiega Schino. Ma per un primate distinguere amici e nemici, capire quando è possibile lasciarsi andare alla violenza, quando invece è più prudente girare alla larga e contro chi lanciare la propria vendetta è questione a volte di vita e di morte. «Abbiamo scoperto – continua Schino – che i macachi sanno bene con chi prendersela dopo aver subito un’aggressione». Quello che in termini laici chiameremmo vendetta, per gli esperti prende il nome di ”aggressione ridiretta”. «Se viene rivolta verso un parente dell’aggressore, ovviamente più debole, è più improbabile che l’aggredito sia attaccato di nuovo. Se prende di mira un individuo che non ha legami di parentela con l’aggressore, è invece probabile che l’aggredito le prenda ancora. Per questo è importante per i primati capire che posto occupano nella gerarchia sociale gli individui che li circondano. Chi è più bravo riceve meno aggressioni, ha più probabilità di vivere a lungo e riprodursi» prosegue l’etologo, mentre strilli e inseguimenti con ciuffi di pelo che volano si susseguono al di là del recinto.
Per censire le 15mila aggressioni i ricercatori del Cnr hanno impiegato 519 ore di osservazione. Il che si traduce in una zuffa ogni due minuti. «Raramente si fanno male. Anche se le aggressioni di gruppo possono essere molto violente» spiega Schino. «Tutta questa litigiosità serve a rinforzare e ristabilire le gerarchie. Spesso non c’è nemmeno un pretesto. A un certo punto un macaco parte e mena. E chi subisce in silenzio viene attaccato di nuovo dopo cinque minuti. L’aggressione ridiretta diventa a quel punto molto importante». I macachi del Giappone (o meglio, i loro genitori) sono arrivati allo zoo di Roma nel 1977. «Oggi sono 59 individui, tutti nati in cattività. Ma osservandoli bene ci si rende conto che sono divisi in cinque o sei gruppi» spiega Federico Coccìa, veterinario e presidente della Fondazione Bioparco di Roma. «Al vertice di ogni gruppo c’è un maschio alfa. Ma il suo potere svanirebbe subito senza le femmine che lo circondano. Abbiamo notato che quando il maschio dominante le offende non facendole mangiare, stando loro lontano e non accettando la loro spulciatura, loro smettono di supportarlo nelle aggressioni. E lui perde immediatamente la posizione dominante».
Repubblica – 2 marzo 2017