di Davide Illarietti e Giangiacomo Schiavi. L’inversione demografica letta attraverso i consumi riflette un nuovo cambiamento: non siamo solo un Paese di vecchi, siamo un Paese di cani e gatti. Se l’anzianità è una tendenza inevitabile, la pet humanisation è un boom inarrestabile. In Italia gli animali che ci fanno compagnia sono 15 milioni, più o meno lo stesso numero dei pensionati con più di 65 anni. Il crollo delle nascite (meno 2,4 per cento nel 2016) ha dato l’ultima spallata, e nei supermercati le grandi catene hanno rimpicciolito gli scaffali destinati all’infanzia: gli spazi dedicati a cani e gatti sono triplicati.
Si può dire che la metamorfosi è iniziata qualche anno fa dal pannolino. A quello tradizionale si è aggiunto un modello concorrente, con la fessura per la coda. Poi è toccato ai carrelli della spesa. I primi sono comparsi in una Conad, provincia di Lucca: al posto del seggiolino per bimbi, c’era una comoda gabbietta. Tra il 2015 e il 2016, centinaia di supermercati hanno aperto le corsie ai clienti a quattro zampe. Business is business. Gli «amici cuccioli» pesano ormai più dei cuccioli d’uomo nella bilancia dei consumi.
I dati elaborati da Nielsen per il Corriere parlano chiaro: nel 2017 il «pet care» ha portato nelle casse della distribuzione italiana tre volte l’incasso dei prodotti per neonati. Due miliardi e 600 milioni di euro: in aumento (più 3 per cento) rispetto all’anno scorso. Al contrario il comparto infanzia è in ritirata cronica, il calo nelle vendite oscilla tra il 4,4 e il 2,9 per cento (rispettivamente, per prodotti alimentari e baby care). Di questo passo gli italiani arriveranno presto a spendere per i consumi non alimentari dei loro figli (pannolini, salviette, prodotti igienici) meno di quanto sborsano, ogni anno, solo in cibo per cani. Il sorpasso — il conto è facile, e gli operatori lo hanno già fatto — è da prevedere per l’anno prossimo.
A suggerire di guardare tra gli scaffali di Esselunga, Coop, Despar e Carrefour è stato un lettore del Corriere . Fateci caso, ha scritto, per capire meglio questa società. Dopo il partito, l’avvocato, il parrucchiere, il ristorante, la spiaggia, il cimitero, l’albergo, il club, la scuola la festa e la tv (Bruno Vespa li ha sdoganati a Porta a Porta ), il supermercato rafforza uno status: cani e gatti fanno parte della famiglia e anche dei consumatori. Con numeri e fatturati che in Italia si associano a una preoccupante denatalità.
«Basta un giro in un qualsiasi punto vendita per accorgersene» conferma Massimiliano Dona dell’Unione nazionale consumatori, che nel fenomeno vede «la conseguenza della sovra-diversificazione dell’offerta, come già successo a suo tempo per il super-food da tavola». Dati al metro quadro non ne esistono, ma «è chiaro — continua Dona — che il moltiplicarsi di prodotti funzionali, dalle crocchette bio o vegane ai bocconcini contro le intolleranze, ha prodotto una sproporzione sugli scaffali nei nostri supermercati. Attenti però: dietro può nascondersi una minaccia per il portafogli».
Stando a un’indagine Istat, negli ultimi tre anni la spesa media degli italiani alla voce «animali domestici» è aumentata da 49 a 51 euro al mese (gli alimenti per bambini sono calati, da 29 a 27 euro). Dall’area-pet dei supermercati transita abitualmente una famiglia su cinque, mentre ormai meno del 4 per cento si ferma nella zona bimbi. In cima alla lista della spesa, prima di biberon e latte in polvere, viene l’occorrente per il gatto, che si «mangia» da solo oltre un euro ogni quattro spesi dagli italiani in pet-care. Il cane, secondo sul podio, muove un giro d’affari di 517 milioni; seguono roditori, uccelli, pesci e tartarughe (19 milioni in tutto) che pure perdono punti rispetto a creature più esotiche (più 24 per cento in un anno, da 15 a 19 milioni). Le grandi catene mettono le mani avanti: «Nuovi bisogni necessitano di nuovi approcci» enuncia Antonella Cosciotti di Ancc-Coop, che nel 2016 ha lanciato la sua linea di prodotti per animali (quella per neonati risale ormai al lontano 2004). Da allora, conferma Cosciotti, «in particolare i prodotti premium sono cresciuti a doppie cifre».
Il fatto che viziamo gli amici a quattro zampe almeno quanto — un tempo — i figli, è un’altra conferma di una sostituzione antropologica? Per Dona, più che altro, «è il segno che siamo vittime, ancora una volta, della comunicazione pubblicitaria. Il mercato si è trasformato in una giungla. Il rischio — conclude il presidente dell’Unione Consumatori — è che i proprietari di questi animali paghino prezzi ingiustificati fino a tre volte tanto, senza reali garanzie di qualità». Comunque suona strano dire «vita da cani»: sta diventando un privilegio.
Corriere della Sera – 24 ottobre 2017