Paolo De Ioanna. Ogni ceto burocratico incorpora e utilizza una teoria dei processi economico sociali; questa teoria, a sua volta, incorpora una scala di valori e di priorità. Tra questo ceto e i politici che operano direttamente nelle istituzioni non c’è alcuna soluzione di continuità: c’è necessariamente uno scambio continuo di esperienze, valutazioni, decisioni.
La qualità delle politiche pubbliche si alimenta della qualità e della organizzazione di questo scambio. Naturalmente è opportuno che la distinzione di ruoli e responsabilità resti netta, ma si tratta di una convenzione che serve a far funzionare un sistema politico a base democratico-rappresentativa: ci deve essere la possibilità di comprendere bene, chi ha deciso, perché e sulla base di quali elementi cognitivi. Scaricare le cause della crisi sul ceto tecnico burocratico, in particolare giuridico amministrativo, non ha in sé un potere esplicativo reale.
Il punto sta nel capire perché il blocco “politica-burocrazia” ha perso una visione realistica delle cose; perché si è chiuso in un arroccamento corporativo delle diverse famiglie di operatori, politici e burocratici, rendendo sterile il dibattito e lo scambio culturale. Il ventennio berlusconiano, esasperando le tecniche del confronto mediatico, ha contribuito a questa piegatura regressiva della società italiana: ma in verità le cause sono più profonde.
Una discussione sulla crisi italiana e sulle vie per uscirne in modo democratico ritengo debba prendere le mosse dall’analisi delle cause per le quali abbiamo lentamente perso una visione ed una prassi di politica industriale; le scelte di specializzazione industriale si portano appresso scelte scientifiche, culturali, di assetto del sistema educativo e territoriale, dei rapporti tra capitale e lavoro.
Senza una specializzazione industriale robusta e condivisa, è difficile creare valore nella catena dell’economia globalizzata; ci siamo immessi nei flussi del mercato globale senza un’idea chiara dei nostri punti di forza e debolezza, sperando solo nella capacità adattativa dei nostri operatori, pubblici e privati. Abbiamo preferire galleggiare, pensando che la questione cruciale fosse quella della spesa pubblica e del suo controllo; questione essenziale ma del tutto strumentale rispetto all’idea di sviluppo e alla connessa strategia che si intendeva seguire. Anche una apertura ai mercati deve fare conti con una precisa idea delle filiere settoriali e tecnologiche nelle quali si ritiene di mantenere una forte specializzazione produttiva.
Dagli anni ’80 le isole, molto ingombranti, delle grandi partecipazione pubbliche che facevano molta ricerca ed innovazione e spingevano la crescita sono state lasciate a se stesse e alla loro capacità di investire e difendersi da sole sui mercati globali; i governi che si sono succeduti hanno teorizzato la loro neutralità sempre e comunque; infatti le grandi partecipate pubbliche hanno fronteggiato da sole questa situazione; la macchina pubblica è stata lentamente deprivata di ogni capacità di indirizzare, soprattutto valutare e correggere le politiche industriali, che non c’erano, con l’abbandono della scuola, di università e ricerca al loro destino, quasi fossero meri utilizzatori finali di risorse pubbliche da tosare per fare cassa. Il mezzogiorno è divenuto un non problema.
Il federalismo che non c’è e i costi standard sono divenuti l’alibi verbale di una stagione di fallimenti industriali e politici. E’ in questa temperie che cresce e si sviluppa l’egemonia del ceto forense: burocrati pubblici, magistrati, professori, avvocati, membri delle Authority. Un ceto che declina il verbo della partecipazione democratica al procedimento amministrativo come la linea di modernizzazione amministrativa del sistema. In questo ceto il profilo procedurale è tutto; gli specialismi che devono coesistere e integrarsi in ogni robusta politica pubblica (trasporti, energia, ricerca, innovazione, cultura universitaria,) declinano. Le procedure sono tutto, coincidono con le politiche.
Una chiave esplicativa di questo fenomeno può essere forse questa: le complicazioni procedurali e giuridiche si ampliano quando una società (e il suo gruppo dirigente) perde le coordinate del suo sviluppo. Quando perde la scheda qualitativa della domanda che viene alimentata dall’equilibrio tra il finanziamento del bilancio pubblico, l’equità percepita del prelievo e la qualità della spesa. Quest’ultima appare quindi come un peso inutile mentre tutto si risolve solo se la pressione fiscale diminuisce e libera reddito disponibile per imprenditori e lavoratori. Questa visione è il verso di un recto della medaglia, e il recto è la debolezza strutturale di una visione di politica industriale e dello sviluppo tecnologico e infrastrutturale; è la caduta degli investimenti fissi lordi, che ha fatto da ammortizzatore per la spesa finale, allo scopo di mantenere vincoli europei di bilancio alquanto stupidi. E’ qui che si installa la dominanza di una pseudocultura giuridico- contabile che è divenuta egemone, di fatto, dentro la macchina pubblica. Come se ne esce? La revisione della spesa se ha come scopo l’innovazione strutturale delle politiche e il forte rilancio degli investimenti, in una visione chiara e una scala nitida di priorità, può essere il metodo e l’occasione per superare il federalismo senza risorse e un contabilismo fine a se stesso, senza orizzonte valutativo e senza bussola; per far avanzare il ruolo di un ceto tecnico, di specialisti delle politiche pubbliche, ai quali i giuristi offriranno solo la veste per soluzioni innovative, dentro le priorità nitidamente scelte dalla politica.
Affari e Finanza – 22 settembre 2014