Pubblichiamo questa articolata analisi che può essere utile come elemento di conoscenza e di riflessione per la definizione di un quadro complessivo e per affrontare una delle sfide più strategiche della nostra epoca
di Angelo Zinna, Valigia Blu- L’industria della carne, oggi, opera tra due forze in tensione. Da una parte istituzioni come le Nazioni Unite chiedono una riduzione rapida e drastica del consumo globale di carne per limitare i suoi effetti negativi sull’ambiente, mentre dall’altra la domanda di proteine animali continua a crescere con l’aumento della popolazione mondiale. Riuscire a nutrire il mondo in modo etico e sostenibile è una delle sfide più pressanti della nostra epoca e la carne gioca un ruolo centrale nella strategia per combattere la crisi climatica.
Negli ultimi 50 anni la popolazione globale è raddoppiata, ma il consumo di carne è triplicato, con una produzione che ha toccato le 340 milioni tonnellate nel 2018. L’agricoltura animale è arrivata a produrre il 14,5% delle emissioni di gas serra, diventando la seconda fonte di emissioni antropocentriche dopo il settore energetico, che emette il 76% di tutti i gas serra nell’atmosfera.
Per la prima volta dagli anni ‘60, il consumo di carne ha subito un calo nel 2019 e nel 2020. La causa, però, non è stata né un risveglio ecologico collettivo né un’ondata di compassione per gli animali: come riporta la FAO, la produzione globale di carne globale è scesa di circa un punto percentuale nel 2019 a causa di un’epidemia di peste suina africana (ASF) che ha colpito soprattutto Cina, sud-est asiatico, Europa centrale, Kenya e Sud Africa e nel 2020 per l’impatto del COVID-19 sull’economia.
Nonostante lo stallo degli ultimi due anni, la FAO stima che la produzione mondiale di carne raddoppierà entro il 2050, sia a causa dell’aumento della popolazione globale, che si prevede sfiorerà i dieci miliardi di persone, che per l’ingresso di un numero sempre maggiore di cittadini di paesi in via di sviluppo nella classe media.
Il consumo di carne (e prodotti di derivazione animale) porta con sé problemi etici legati al trattamento degli animali, alla salute delle persone e alla sostenibilità ambientale che vista la situazione attuale non possono essere ignorati.
Gli allevamenti intensivi e la violenza sugli animali
L’impatto sulla biodiversità dell’agricoltura animale
I rischi per gli esseri umani: zoonosi e resistenza antibiotica
Un’infrastruttura insostenibile: l’impatto dell’agricoltura animale sull’ambiente
Capire le emissioni di gas serra
L’illusione della carne del contadino
La dieta ideale: vegetale al 90%
L’antropocene non esiste
Il problema nel tassare la carne
Alternative alla carne
Gli allevamenti intensivi e la violenza sugli animali
Tra 200 e 500 milioni di persone nel mondo vivono di pastorizia. Comunità nomadi, pastori transumanti e alpeggi si sostengono, nel 75% dei paesi del mondo, attraverso attività legate all’allevamento di animali. Non è, però, l’attività di queste persone a portare la maggior parte della carne consumata nel mondo a tavola e lo stile di vita pastoralista è oggi considerato a rischio proprio a causa dell’espansione di sistemi agricoli industriali.
Circa due terzi degli animali allevati a livello globale arriva da operazioni intensive per la produzione di massa di prodotti alimentari di origine animale. Nei paesi più fortemente industrializzati questa proporzione aumenta in modo drastico: come raccontava Jonathan Safran Foer nel suo “Se niente importa”, è noto che negli Stati Uniti quasi il 99% della carne è prodotto in “factory farms”, fabbriche di carne che puntano sulla crescita rapida di animali ad alto rendimento attraverso allevamenti selettivi e l’utilizzo di mangimi concentrati. In Europa la situazione è migliore, anche se la produzione industriale rimane alta: secondo l’associazione animalista End the Cage, in 19 Stati europei almeno la metà degli animali sono allevati all’interno di gabbie che permettono loro a malapena di muoversi. In Italia si stima che il 68% degli animali da allevamento provenga da processi di questo genere.
Efficienza è la parola d’ordine: spazi vitali ridotti al minimo, mangimi carichi di antibiotici per evitare la trasmissione di malattie (quindi la perdita di prodotto), mutilazione (senza anestesia) di parti del corpo che gli animali potrebbero causare ferite durante scontri dovuti al sovrappopolamento sono tra le pratiche più comuni negli stabilimenti in cui la maggior parte degli animali del mondo è macellata per diventare cibo.
In paesi come Stati Uniti, Australia e Canada i grandi produttori di carne hanno promosso l’introduzione di leggi ad-hoc conosciute come leggi “ag-gag” (dove “ag” sta per agricoltura e “gag” per bavaglio) per impedire a lavoratori e attivisti di denunciare i maltrattamenti di animali. Queste leggi, che impediscono la diffusione di materiale fotografico che ritrae il processo di produzione della carne, non hanno impedito che negli ultimi anni immagini crude che raccontano ciò che accade all’interno degli allevamenti intensivi diventassero di pubblico dominio.
Se fin dagli anni ‘70 organizzazioni come l’Animal Liberation Front (ALF), PETA (Persone per il Trattamento Etico degli Animali) e, in Italia, la Lega Anti-Vivisezione si sono impegnate a esporre le pratiche crudeli degli allevamenti intensivi, è nel 2005 che il problema ha raggiunto il grande pubblico con Earthlings, il documentario di Shaun Monson narrato da Joaquin Phoenix, che ha dato via a un lungo filone di film dedicati all’argomento che include Cowspiracy (2014), Dominion (2018), Eating Animals (2018), e il più recente Seaspiracy (2021, sull’industria del pesce).
L’esposizione della violenza esercitata sugli animali negli allevamenti intensivi ha portato, negli anni, a una maggiore attenzione da parte dei consumatori, dei media e della politica verso il problema. Nel 2016, ad esempio, dopo un servizio di Report che mostrava le condizioni igieniche di un allevamento di suini, in cui i maiali erano tenuti in gabbie così strette da non permettere agli animali di muoversi, l’Ente Nazionale per la Protezione Animali (ENPA) ha presentato un esposto verso Amadori, che controllava lo stabilimento, costringendo la società a patteggiare, nel 2020, per il reato di uccisione di animali, maltrattamento e abbandono.
Nel 2020, in seguito a una petizione che ha raccolto 1,6 milioni di firme di cittadini europei e 170 diverse associazioni animaliste, l’organizzazione End the Cage Age ha presentato al Parlamento Europeo la richiesta di abolizione delle gabbie negli allevamenti. La proposta è stata discussa a metà aprile 2021 e a luglio il Parlamento dovrà decidere se procedere con l’introduzione di una legge.
Prima ancora di arrivare nelle gabbie, circa sette miliardi di pulcini maschi vengono uccisi nel mondo ogni anno, in macchine trituratrici o con il gas, perché inutili da un punto di vista commerciale per i produttori di uova. La pratica rimane diffusa, ma la Francia ha recentemente annunciato che vieterà l’abbattimento di pulcini entro la fine del 2021. Anche negli Stati Uniti, la United Egg Producers, il gruppo commerciale che rappresenta la maggior parte dei produttori nel paese, ha promesso che entro quattro anni abbandonerà la pratica, introducendo una tecnologia che permetterà di identificare il sesso dell’animale attraverso un’analisi del DNA prima della nascita.
I maltrattamenti, però, non avvengono solo all’interno degli allevamenti. Il trasporto di animali vivi diretti alla macellazione è spesso un’esperienza traumatica che consiste nel percorrere lunghe distanze su mezzi sovraffollati in condizioni igieniche pessime. Ogni anno quasi 2 miliardi di animali da allevamento sono caricati su camion o navi per essere esportati. Il commercio è in espansione in Europa, dove l’esportazione di animali vivi ha raggiunto un valore stimato di 2,75 miliardi di euro, secondo il Guardian. Gli animali, inoltre, intraprendono viaggi sempre più lunghi, raggiungendo luoghi remoti come la Russia, l’Uganda e la Thailandia dopo settimane.
Nel 2018, 6.400 animali hanno raggiunto l’Europa continentale dal Regno Unito. Nel dicembre scorso il Dipartimento per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali (Defra) britannico ha annunciato l’introduzione di un divieto di esportazione di animali per la macellazione.
Nonostante i passi avanti e la crescente pressione da parte di consumatori e associazioni sugli enti legislativi, la domanda di prodotti di origine animale continua ad aumentare e con questa le pratiche legate alla produzione intensiva, sempre più difficili da controllare a causa della globalizzazione del mercato.
Un’investigazione dell’Unione Europea del 2019, ha scoperto anche che l’Italia è uno dei paesi in cui la pratica del taglio della coda dei suini è più diffusa. Le code dei suini vengono tagliate regolarmente per evitare che gli animali si feriscano mordendole, fatto comune quando costretti a vivere a stretto contatto o a temperature inadeguate. In Lombardia e in Emilia Romagna, le due regioni più importanti per l’allevamento di suini in Italia, il 98% degli allevatori mozza la coda ai propri animali, nonostante la pratica sia stata vietata a livello europeo dal 1994 e la letteratura scientifica abbia dimostrato il trauma causato dall’operazione.
A livello globale tra i 70 e gli 80 miliardi di animali continuano a essere uccisi ogni anno per diventare cibo. Di questi la grande maggioranza sono polli, seguiti da maiali, tacchini, pecore, capre e bovini.
Stati Uniti e Australia rimangono in testa per quanto riguarda il consumo pro capite (con oltre 90kg di carne mangiata in media da una persona ogni anno), ma la crescita più rapida sta avvenendo in Cina. Nel 1960 in Cina una persona consumava in media 5kg di carne all’anno, mentre nell’ultimo decennio è arrivata a consumarne 60kg. La morte degli animali, però, non si ferma alla macellazione.
L’impatto sulla biodiversità dell’agricoltura animale
I ricercatori di Chatham House, un centro di ricerca indipendente con base a Londra, hanno stimato che l’attuale sistema alimentare e il processo di conversione degli habitat naturali in terreni agricoli è la causa principale della perdita di biodiversità. La popolazione animale del nostro pianeta è stata in gran parte sostituita da bestiame d’allevamento, riducendo lo spazio a disposizione per il fiorire delle specie native. I polli d’allevamento, ad esempio, rappresentano oggi il 57% della massa di tutte le specie di uccelli.
Questo è dovuto a ciò che lo studio definisce il paradigma del “cibo economico”, ossia la spinta del mercato verso una produzione sempre più efficiente, sempre più accessibile, sempre più abbondante per favorire i consumi, spesso mettendo in secondo piano le conseguenze dell’utilizzo intensivo di risorse limitate.
Delle oltre 28.000 specie a rischio di estinzione segnalate dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), 24.000 sono minacciate da pratiche invasive legate ai settori di agricoltura e acquacoltura. A causa dello sfruttamento incontrollato di risorse naturali, siamo entrati nella sesta estinzione di massa sulla Terra, causando la scomparsa di specie ad un tasso 100 – 1000 volte maggiore rispetto ai tassi dell’Olocene, secondo Lancet.
Nonostante i campanelli d’allarme suonati dalla comunità scientifica, le proiezioni stimano che, con i livelli di crescita attuali, entro il 2050 l’industria dell’agricoltura animale si dovrà espandere geograficamente del 30% – 50% per sopperire alla domanda.
I rischi per gli esseri umani: zoonosi e resistenza antibiotica
Non sono, però, solo gli animali a morire a causa dell’industria della carne. Le malattie zoonotiche sono quelle che gli animali trasmettono agli esseri umani attraverso il contatto diretto o indiretto. “Zoonosi” è diventato un termine tristemente comune nel 2020, quando il coronavirus si è introdotto nelle vite della popolazione di buona parte del mondo, ma la COVID-19 non è la prima malattia zoonotica ad aver avuto origine dal contatto tra persone e animali e probabilmente non sarà l’ultima.
Gli allevamenti intensivi sono considerati dagli esperti come terreno fertile per la trasmissione di malattie zoonotiche e l’espansione del settore agricolo è stato collegato ad un più alto rischio di zoonosi.
Uno studio del 2013 del PNAS, l’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, ha trovato una forte correlazione tra intensificazione agricola e l’aumento del rischio di emergenze sanitarie derivate dalla trasmissione di malattie zoonotiche. Nonostante nel corso dell’ultimo secolo diete più nutrienti, miglioramento delle condizioni igieniche, vaccini e avanzamento scientifico abbiano ridotto l’impatto delle malattie infettive sulla salute umana, negli ultimi decenni la globalizzazione e la crescita demografica di persone e bestiame hanno aumentato le probabilità di insorgenza di pandemie.
Molte malattie zoonotiche emerse di recente hanno avuto origine nella fauna selvatica. L’espansione dell’agricoltura negli habitat della fauna selvatica, porta esseri umani e animali da allevamento a vivere a più stretto contatto con la fauna selvatica potenzialmente portatrice di patogeni zoonotici. Il maggiore livello di interazione crea opportunità per la propagazione di patogeni precedentemente sconosciuti nel bestiame o negli esseri umani e l’istituzione di nuovi cicli di trasmissione.
L’avvicinamento di ecosistemi naturali e allevamenti animali provoca l’espansione degli ecotoni, le zone di transizione tra sistemi ecologici adiacenti, in cui finiscono per convivere specie provenienti da habitat diversi. Gli ecotoni creano un’opportunità per i patogeni, che in questi spazi possono diffondersi, adattarsi e variare. L’origine di molte malattie è stata associata agli ecotoni – la febbre gialla, la malattia di Lyme, la rabbia, il colera – e la maggior parte di esse sono il risultato di zoonosi che ha coinvolto il bestiame.
Lo studio fa molti esempi di virus che hanno raggiunto gli esseri umani a causa dell’espansione di allevamenti intensivi e delle attività agricole: l’encefalite giapponese che ha colpito il sud-est asiatico in seguito all’espansione di risaie e allevamenti suini, il virus Hendra, trasmesso dai pipistrelli in Australia dopo la deforestazione e il virus Nipah, che si è diffuso in Malesia alla fine degli anni ‘90 quando gli allevamenti suini hanno raggiunto le aree in cui erano presenti alberi da frutto di cui i pipistrelli portatori del virus si cibavano.
Nel 2020, un nuovo studio pubblicato sulla rivista Environmental and Resource Economics, conferma quanto affermato in precedenza. Circa il 75% delle malattie infettive emergenti è zoonotico e dal 1940, le attività agricole sono stati associati con un incremento tra il 25% e il 50% delle malattie zoonotiche contratte dagli esseri umani. Queste proporzioni, spiega lo studio, hanno buona probabilità di aumentare con l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura in anni futuri. In breve, l’attuale pandemia di COVID-19 non dovrebbe essere vista come un evento anomalo.
Se non bastasse, è importante notare che il problema della trasmissione di malattie da animali a esseri umani non è causato solo dalla nostra invadenza geografica. Nel 2017, un report delle Nazioni Unite definiva la crescente resistenza agli antibiotici come una delle maggiori preoccupazioni per salute pubblica globale del ventunesimo secolo. Gli antibiotici usati negli allevamenti per impedire al bestiame di ammalarsi e per far crescere gli animali più rapidamente possono riversarsi nell’ambiente circostante, per esempio attraverso il deflusso dell’acqua e i liquami. Disperdendosi nell’ambiente questi potenti medicinali permettono ai batteri che provocano malattie pericolose per gli esseri umani di adattarsi e divenire resistenti.
Secondo Science, il 73% di tutti gli antibiotici venduti nel mondo sono usati negli animali allevati per diventare cibo. Gli antibiotici vengono inseriti nel mangime degli animali indipendemente dalla necessità di proteggere la loro salute, spesso in quantità ben superiori di quanto sarebbe sufficiente per evitare infezioni. È una pratica estremamente rischiosa, in quanto l’utilizzo indisciminato di antibiodici porta i batteri a reagire mutando, così da poter sopravvivere. Molti dei batteri che causano malattie negli animali (dall’escherichia coli alla salmonella) sono pericolosi anche per gli esseri umani e se gli antibiotici smettono di essere mezzi di protezione efficaci sul bestiame, il loro effetto sarà lo stesso sulle persone.
Una soluzione tecnologica a questo problema è in fase di sviluppo all’Università di Oxford, che attraverso la fondazione del Ineos Oxford University Institute (IOI) per la ricerca antimicrobica sta progettando nuovi medicinali antimicrobici solo per gli animali. Questi medicinali, che dovrebbero diventare disponibili entro i prossimi dieci anni, farebbero sì che le mutazioni dei batteri contrastati da antibiotici per animali non diventino resistenti anche agli antibiotici usati per proteggere la salute umana. Il progetto è stato avviato da una donazione di 100 milioni di sterline da parte della multinazionale petrolchimica Ineos, ed è stato fortemente criticato perché visto come una mossa per permettere agli allevamenti intensivi di continuare a operare senza restrizioni.
I paesi in cui la resistenza agli antibiotici è risultata più evidente nell’ultimo decennio sono spesso quelli in cui la domanda di carne è cresciuta in modo più rapido, senza che i legislatori fossero in grado di controllare l’evoluzione del fenomeno. India, Cina, Pakistan, Iran, Turchia, Brazil, Egitto e Vietnam hanno mostrato i tassi di resistenza più alti tra il 2010 e il 2018. Questo non significa che si tratti di un problema delle economie emergenti: la Commissione Europea ha infatti calcolato che zoonosi e resistenza antimicrobica causano ogni anno 33.000 morti in Unione Europa.
Un’infrastruttura insostenibile: l’impatto dell’agricoltura animale sull’ambiente
C’è, infine, l’ambiente. Secondo l’Università di Oxford, la metà di tutti i terreni abitabili sul pianeta è utilizzata per l’agricoltura, mentre il 37% è occupato da foreste. I terreni agricoli sono impiegati per il 77% per l’allevamento, nonostante carne e latticini forniscano solo il 18% delle calorie consumate dalla popolazione globale.
L’agricoltura (animale e non) danneggia l’ambiente per due motivi principali: attraverso l’espansione dell’industria e attraverso l’intensificazione della produzione. Occupando sempre più spazio, i terreni necessari per allevare animali e coltivare mangime vanno a rimpiazzare ecosistemi naturali, con conseguenze negative per la biodiversità, lo stoccaggio del carbonio e la salute del suolo. Oggi, l’agricoltura si sta espandendo principalmente nei tropici, dove si stima che circa l’80% delle nuove terre coltivate stia sostituendo le foreste. In Brasile, ad esempio, l’80% dei terreni disboscati è utilizzato per gli allevamenti di bestiame (il Brasile ha esportato circa 6 miliardi di dollari di carne bovina nel 2018, più di qualsiasi altro paese nella storia) e la maggior parte dello spazio restante è dedicato alla coltivazione della soia. Il 77% della soia prodotta serve a nutrire gli animali, solo il 7% è utilizzato per la produzione di prodotti di consumo umano, come il tofu o il latte di soia. Per questo, il Cerrado, la savana tropicale che ospita il 5% delle specie animali del mondo e il 30% della biodiversità brasiliana, sta scomparendo a una velocità doppia rispetto all’Amazzonia. Ad oggi il 43% del Cerrado è stato disboscato per far spazio a terreni per il pascolo e piantagioni di soia, mentre l’Amazzonia brasiliana ha perso poco meno del 20% delle sue foreste dal 1970.
L’intensificazione dell’industria agricola, invece riguarda i mezzi utilizzati per rendere i terreni più produttivi, a partire dall’energia, alla meccanizzazione, fino ai fertilizzanti e, ovviamente l’irrigazione. Ad oggi, circa il 70% dei prelievi d’acqua dolce nel mondo è utilizzato dal settore agricolo e un terzo di tutti i terreni coltivati viene utilizzato per produrre foraggio. Come avevamo spiegato in un precedente articolo, nonostante l’acqua utilizzata dall’agricoltura animale sia per l’87,2% “verde” (cioè piovana), l’acqua “blu” estratta da fonti sulla superficie terrestre (e non restituita) compone una fetta importante delle risorse idriche disponibili sulla terra. La FAO stima che la Terra ospiti circa 1.400 milioni di chilometri cubici d’acqua, ma solo 45,000 chilometri cubici sono acqua dolce che potrebbe essere usate per l’alimentazione, la sanità e l’agricoltura. Ad oggi, più di 2 miliardi di persone vivono in paesi dove il prelievo totale di acqua dolce supera il 25% del totale dell’acqua dolce rinnovabile presente sul territorio e la maggior parte di questi prelievi sono utilizzati per produrre alimenti inefficienti dal punto di vista dell’impronta idrica: servono da 1 a 3 tonnellate d’acqua per coltivare 1 chilo di cereali, mentre un chilo di carne di manzo richiede fino a 15 tonnellate d’acqua per arrivare sul piatto. Oltre a essere utilizzate, le limitate risorse d’acqua dolce sono state fortemente degradate dall’uso di fertilizzanti, aumentato del 500% negli ultimi 50 anni.
Solo per poter operare ai ritmi odierni, quindi, l’industria della carne si appoggia su un’infrastruttura mastodontica che oltre ad essere dannosa per l’ambiente è inefficiente nella produzione di calorie. Secondo uno studio dell’Università del Minnesota, infatti, servono circa 100 calorie di grano per produrre 12 calorie di pollo o 3 calorie di manzo.
Capire le emissioni di gas serra
Lo sfruttamento di spazio e risorse naturali è solo il primo problema dell’agricoltura animale. L’industria della carne e quella del latte, infatti, producono una quantità importante di gas serra, che intrappolando il calore all’interno dell’atmosfera causano il riscaldamento globale, i cui effetti includono lo scioglimento delle calotte polari, l’innalzamento dei mari, il collasso degli habitat naturali degli animali ed eventi meteorologici estremi e difficili da prevedere.
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I gas serra dannosi per l’ambiente si dividono in quattro categorie principali – diossido di carbonio (CO2), metano (CH4), ossido nitroso (N2O) e gas fluorurati – e l’industria della carne è responsabile per vaste emissioni di tre tipi di gas serra su quattro. Il diossido di carbonio, rilasciato bruciando combustibili fossili, è immesso nell’ambiente attraverso il trasporto, la produzione di mangime e l’utilizzo di energia per alimentare gli impianti di lavorazione. Secondo la FAO, l’agricoltura animale è responsabile per il 5% delle emissioni globali di CO2 nell’atmosfera. Poco se comparato al metano, rilasciato attraverso i processi digestivi degli animali, di cui gli allevamenti sono responsabili per il 44%. L’ossido nitroso, uno dei gas più dannosi per l’ambiente, è emesso soprattutto attraverso l’uso di fertilizzanti.
Le quantità hanno poco significato se non sono contestualizzate: ogni gas serra ha infatti un effetto diverso sull’ambiente e alcune sostanze possono diventare pericolose anche se rilasciate in quantità ridotte.
Se è vero che circa la metà del diossido di carbonio emesso viene assorbito dagli oceani e dalle foreste, la parte restante si accumula nell’atmosfera e permane per centinaia di migliaia di anni. Questo significa che una volta nell’atmosfera, il diossido di carbonio può continuare a influenzare il clima per migliaia di anni. La concentrazione di diossido di carbonio considerata sicura per la salvaguardia dell’ambiente e delle generazioni future è di 350 PPM (parti per milione, rispetto alle altre sostanze presenti nell’atmosfera). A marzo 2021 abbiamo toccato le 417 PPM: oltre a dover ridurre drasticamente le emissioni sarà necessario sviluppare tecnologie in grado di rimuovere il diossido di carbonio in eccesso per prevenire le conseguenza negative del cambiamento climatico.
Il metano, il gas serra di cui l’agricoltura animale è maggiormente responsabile, persiste nell’atmosfera per soli 12 anni, ma ha un effetto sul riscaldamento globale 28 volte superiore al diossido di carbonio. Nonostante la sua volatilità, la concentrazione di metano nell’atmosfera è raddoppiata nel corso dell’ultimo secolo.
L’ossido nitroso, una causa importante dell’inquinamento dell’aria, resta nell’atmosfera per 114 anni e il suo impatto sul riscaldamento globale è superiore al diossido di carbonio di 265 volte. Le emissioni globali antropocentriche, che risultano principalmente dall’utilizzo di azoto nel settore agricolo, sono aumentate del 30% negli ultimi quarant’anni.
A queste, si aggiungono le emissioni “indotte,” cioè legate al disboscamento e al seguente rilascio di diossido di carbonio che prima era trattenuta dalle foreste. Secondo Carlos Nobre, scienziato del clima all’Università di San Paolo in Brasile, se la deforestazione non venisse fermata trasformerebbe una grande quantità della foresta amazzonica in deserto, causando il rilascio di più di 50 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio nell’atmosfera entro i prossimi 50 anni.
Secondo Lancet, l’80% delle emissioni del settore agricolo proviene dalla produzione di carne. I bovini allevati per la produzione di carne e latte sono, di gran lunga, gli animali più inquinanti. Suini, pollame e pecore hanno livelli di emissioni molto più bassi, inferiori a quelli del formaggio.
L’illusione della carne del contadino
Il metodo industriale è predominante in occidente, ma non è l’unico e un consiglio ricorrente passato a chi vuole mantenere una dieta onnivora riducendo il proprio impatto sull’ambiente è quello di scegliere carne prodotta localmente e in maniera organica.
Purtroppo, secondo le statistiche, entrambi questi suggerimenti non sono validi. In uno studio condotto sul 38.000 aziende agricole in 119 paesi, è stato dimostrato che l’impatto del trasporto sulle emissioni prodotte dalla carne è così piccolo da essere quasi insignificante. Per il manzo proveniente da allevamenti, ad esempio, scegliere carne locale invece di carne importata comporta una riduzione delle emissioni dello 0,5% soltanto.
Il trasporto rappresenta in genere meno dell’1% delle emissioni di gas serra della carne bovina: scegliere di mangiare locale ha effetti minimi sull’impronta totale. Lo stesso vale per la carne organica. In un altro studio riportato dal Guardian, è stato dimostrato che mangiare carne organica può addirittura inquinare di più che mangiare carne prodotta industrialmente. Come spiega l’articolo, il bestiame bio, solitamente nutrito con erba invece che con mangimi importati, oltre a produrre meno carne, cresce più lentamente e quindi passa più tempo a emettere metano prima della macellazione.
Da un punto di vista ambientale, quindi, è più importante scegliere cibi meno inquinanti che porre attenzione alla diversa origine di prodotti della stessa categoria. Il manzo dovrebbe essere il primo tipo di carne da evitare: avendo tassi di crescita e riproduzione più lenti di altri animali, le mucche necessitano di più risorse per diventare cibo per gli umani. Per produrre la stessa quantità di proteine, il manzo richiede il doppio della terra rispetto a pollo e maiale e 20 volte la quantità necessaria alla coltivazione di legumi.
La dieta ideale: vegetale al 90%
Ridurre notevolmente l’impatto del consumo di prodotti animali sugli ecosistemi naturali e sulla biodiversità è possibile. Nella teoria i passi da fare sono essenzialmente tre: il passaggio a una dieta a base vegetale (per il 90%) da parte della popolazione globale; la sostituzione di animali selvatici e di ruminanti come bovini, capre e pecore con fonti di proteine alternative ed ecologicamente efficienti; il rimpiazzo dell’infrastruttura attraverso la quale l’agricoltura intensiva opera, alimentata a combustibili fossili, con sistemi basati su energia rinnovabile.
Come riporta Science, la quantità massima di carne che una persona dovrebbe mangiare per la salvaguardia della biodiversità (e quindi del pianeta), equivale al 10% delle calorie consumate. Cifre simili sono riportate da Lancet, che in uno degli studi più approfonditi sul tema, intitolato “Food in the Anthropocene” e pubblicato nel 2019, ha creato una tabella nutrizionale che mostra di quali alimenti dovrebbe essere composta una dieta sostenibile e salutare. Secondo la rivista una persona dovrebbe consumare al massimo 43 grammi di carne rossa e bianca (92 calorie) e 23 grammi di pesce (40 calorie) al giorno, aumentando il proprio consumo di legumi, noci e verdure. Oltre a diventare ecologicamente sostenibile, la dieta di riferimento di Lancet, se adottata dalla maggior parte della popolazione globale, potrebbe salvare la vita a circa 11 milioni di persone ogni anno, che oggi muoiono per malattie collegabili a un’alimentazione scorretta.
L’antropocene non esiste
La comunità scientifica chiede in modo esplicito il passaggio a una dieta prevalentemente vegana, mostrando i benefici che una transizione di questo genere porterebbe per natura, animali e esseri umani. Le Nazioni Unite, inoltre, chiedono che questa transizione avvenga non gradualmente, ma in modo radicale e immediato.
Parlare di emissioni e consumi globali, di previsioni decennali, di “carne” come categoria inglobante per descrivere una molteplicità variegata di prodotti, di diete di riferimento per l’intera popolazione del mondo serve a mostrare l’entità del problema, ma è, al contempo, una semplificazione che non rende giustizia alla complessità dello stesso.
È una delle critiche più ricorrenti al concetto di “antropocene”, introdotto dallo scienziato Paul Crutzen nel 2000, per descrivere l’epoca geologica dominata dagli esseri umani: la distribuzione della responsabilità su tutta l’umanità, nasconde il ruolo di disparità di classe e sistemi economici nella crisi climatica. Tra gli oppositori più influenti del termine “antropocene” c’è Andreas Malm, professore di ecologia umana all’Università di Lund, che crede che un termine più adatto a descrivere l’era corrente sia “capitalocene” in quanto le disuguaglianze sociali sono parte integrante dell’attuale crisi ecologica e non possono essere ignorate.
Questo è evidente quando si parla di abitudini alimentari: in Europa occidentale, dove si mangiano in media tra gli 80kg e i 90kg di carne all’anno per persona, si consumano 10 volte la quantità di carne di paesi come Etiopia, Rwanda e Nigeria e 20 volte la quantità di quella consumata in India. Negli Stati Uniti e in Australia una persona mangia in media 100kg di carne ogni anno, mentre in Africa subsahariana 220 milioni di persone hanno un’alimentazione inadeguata e potrebbero beneficiare da un maggiore consumo di proteine di origine animale.
La John Hopkins University ha determinato che per contrastare il problema della fame nel mondo potrebbe essere necessario un aumento delle emissioni di gas serra. Lo studio ha evidenziato quanto sia difficile prescrivere raccomandazioni dietetiche generali soddisfacendo le esigenze dei singoli paesi, spiegando che per la maggior parte delle nazioni a basso e medio reddito, una dieta sana, che permetta di prevenire malattie relative alla malnutrizione, potrebbe avere un impatto negativo sull’ambiente.
Non esiste, quindi, una soluzione adatta a tutti e la promozione di una dieta a base vegetale deve includere una presa di coscienza della posizione di privilegio da cui ha origine una strategia di questo tipo. Se la responsabilità fosse suddivisa a seconda dell’impatto nazionale, i paesi più ricchi dovrebbero accelerare con ancora più forza la transizione ecologica.
Il problema nel tassare la carne
Il fattore che influenza più significativamente il consumo di carne è la ricchezza. Diversi studi hanno dimostrato la forte correlazione tra disponibilità economica e consumo di carne, ma nel 2014 la rivista Environmental Science & Policy, ha calcolato che superata una certa soglia di reddito il consumo di carne comincia a calare.
Lo studio ha analizzato i dati sul consumo di carne e il PIL di 120 paesi tra il 1970 e il 2007. I risultati indicano che, a partire da un certo livello di reddito, il consumo di carne rallenta e in alcuni casi inizia a diminuire. Questa tendenza è confermata sia tra paesi diversi che all’interno di singoli paesi nel tempo, tenendo conto di differenze culturali come religione, differenze di genere e geografia. Il “punto di svolta” si trova tra i 27.000 e i 46.000 euro di reddito pro capite – una fascia che 148 paesi nel mondo non raggiungono.
Il PIL pro capite non permette di capire come la ricchezza è distribuita all’interno di un paese, ma indica che non è solo il consumo di carne a dipendere dalla classe sociale, ma anche la coscienza ecologica. È necessario interpretare il dato fornito dallo studio guardando alle dinamiche macroeconomiche, non alla ricchezza individuale. Questo dato, infatti, non significa che i più ricchi mangiano meno carne, ma che una distribuzione della ricchezza che permette l’ingresso di ampie porzioni della poplazione all’interno di una classe media identificabile nella fascia di reddito pro capite indicata, porta con sé anche un maggiore accesso a educazione ecologica, alternative salutari a prodotti alimentari di massa, tempo da dedicare alla ricerca di soluzioni più sostenibili. Secondo le stime, quindi, i paesi ricchi con uguaglianza sociale maggiore potrebbero essere più predisposti a una transizione ecologica di paesi ricchi in cui la disuguaglianza economica è più marcata. Per i paesi più poveri, invece, la strada da fare perché una tendenza inversa nei consumi di carne cominci ad apparire è ancora molto lunga.
Al momento, nonostante l’aumento di diete vegetariane e vegane, non è realistico aspettarsi una transizione volontaria di massa verso diete a base vegetale, anche nei paesi in cui questa transizione dovrebbe avvenire. Troppe persone non sono ancora in condizione di mettere la questione ecologica in cima alle priorità, per motivi economici, culturali o legati all’educazione.
Per guidare la domanda nella giusta direzione l’Unione Europea sta considerando l’introduzione di una “tassa sulla carne” che permetta di compensare i costi ambientali associati al suo consumo e spingere le persone verso prodotti più sostenibili. Un’imposta “comportamentale” simile a quella sul tabacco, che potrebbe i consumatori che seguono diete dannose per il clima a pagare per il loro inquinamento. Secondo uno studio dell’Università di Oxford, se il prezzo della carne di manzo aumentasse del 40%, il consumo diminuirebbe del 13%.
I soldi raccolti attraverso una tassa di questo tipo, oltre a coprire i costi del sistema sanitario legati alla cura di malattie relative all’eccessivo consumo di carne (come avviene per le sigarette), potrebbero essere investiti nel rendere più accessibili fonti di proteine alternative o per facilitare la transizione dell’industria agricola verso la sostenibilità.
Vi sono, però, due problemi principali. Il primo è che una tassa sulla carne (come tutte le tasse di questo genere) peserebbe in modo sproporzionato sui poveri, lasciando alle classi più agiate la libertà di mantenere uno stile di vita dannoso per l’ambiente e per la società. Sono ormai molti gli studi che dimostrano che il principale determinante dell’impronta ecologica effettiva di una persona è il reddito: secondo Oxfam le persone che rientrano nel 10% più ricco della popolazione mondiale sono responsabili di quasi il 50% di tutte le emissioni e coloro che fanno parte dell’1% più ricco emettono il doppio dei gas serra della metà più povera della popolazione globale. Una tassa su prodotti di largo consumo, oltre a non riflettere la situazione attuale, non toccherebbe la radice del problema.
Il secondo problema è che una tassa comportamentale pone la responsabilità sull’individuo invece che su istituzioni e aziende che possono realmente fare una differenza attraverso decisioni mirate. Un esempio lampante viene ancora dal Brasile: tra il 2004 e il 2012 una serie di nuovi regolamenti, tra cui un accordo tra commercianti di non acquistare soia coltivata su terreni recentemente disboscati, ha prodotto grandi successi nel campo della conservazione ambientale, riducendo dell’84% il tasso di deforestazione dell’Amazzonia. Nel 2020, con l’arrivo di Jair Bolsonaro al governo e lo smantellamento delle politiche ambientali, i tassi di deforestazione hanno raggiunto livelli più alti dei 12 anni precedenti.
Nel parallelo con il tabacco, forse, emerge una soluzione: pochi giorni fa il governo della Nuova Zelanda ha discusso la possibilità di vietare la vendita di sigarette a chiunque sia nato dopo il 2004, che renderebbe il tabacco illegale per la prossima generazione. Nonostante i limiti noti del proibizionismo, è una proposta simile a quella presentata da Andreas Malm nel suo “Clima, Corona, Capitalismo” (Ponte alle Grazie, 2020), in cui l’attivista dice:
“Si comincia col vietare l’importazione di carne dai paesi tropicali e subtropicali. Esiste qualcosa di meno essenziale? […] I bovini sono la merce più distruttiva per questi paradisi della biodiversità. Il consumo di carne in generale è il modo più certo di distruggere i terreni; ogni programma di riforestazione estensiva – se si combina con una popolazione mondiale di dieci miliardi di persone, sempre bisognose di proteine – ha per presupposto una loro riduzione. Il veganesimo obbligatorio a livello mondiale sarebbe probabilmente il punto di caduta più salutare per tutti.”
È chiaro che vietare la carne sarebbe un’operazione per niente semplice. Basti guardare cosa è successo negli Stati Uniti dopo che il Presidente Biden ha presentato il piano per tagliare le emissioni del 50% entro il 2030: nonostante Biden non sia andato nello specifico da un punto di vista strategico (evitando del tutto di parlare del settore agricolo), subito dopo il discorso media e commentatori conservatori hanno cominciato a diffondere false informazioni riguardanti una proposta di tagliare il consumo di carne rossa del 90%. La stessa cosa era successa nel 2019 ad Alexandra Ocasio Cortez, che dopo aver detto che dopo aver espresso il suo supporto per il Green New Deal, la proposta che prevede un vasto rinnovo delle infrastrutture americane per mitigare i rischi dovuti alla crisi climatica, è stata accusata da personalità repubblicane di voler togliere gli hamburger dalla bocca dei cittadini ed eliminare le mucche.
Per molte persone la carne è molto di più che un’abitudine alimentare e in paesi come gli Stati Uniti, dove si consumano 20 miliardi di hot dog ogni anno, molte alternative sono viste come una minaccia alla propria identità. A questo si aggiunge il fatto che i grandi produttori non sembrano aver intenzione di rimediare ai danni causati: uno studio pubblicato sulla rivista Climatic Change ha mostrato che dei 35 più grandi produttori di carne e latticini nel mondo solo quattro hanno promesso di impegnarsi per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, come richiesto dall’Accordo di Parigi. Al contrario, ci sono aziende come Fonterra, in Nuova Zelanda, e Nestlé, in Svizzera, che secondo lo studio, se continuassero a operare come nel presente supererebbero la quantità di emissioni rilasciate delle intere nazioni in cui i loro quartieri generali sono situato.
Invece di spendere soldi ed energie nella riduzione del loro impatto sull’ambiente. Le grandi multinazionali di carne e latte, hanno investito somme enormi per contrastare le politiche ambientaliste. Come racconta Sigal Samuel su Vox, dal 2000 a oggi, sei dei più grandi gruppi americani (la National Cattlemen’s Beef Association, il National Pork Producers Council, il North American Meat Institute, il National Chicken Council, l’International Dairy Foods Association e l’American Farm Bureau Federation) hanno speso insieme circa 200 milioni di dollari in lobbying per fermare l’introduzione di regolamenti a favore della sostenibilità.
Trovare un compromesso sarà estremamente complicato.
Alternative alla carne
La domanda globale di proteine è destinata ad aumentare del 9,1% tra il 2020 al 2027. Molti prodotti presentati come alternative sostenibili alla carne sono apparsi sul mercato in anni recenti, sia come risultato di una maggiore attenzione delle persone verso le questioni ambientali, sia in risposta alla crescita recente di vegetariani e vegani.
Marchi come Beyond Meat e Impossible Foods, che tentano di imitare gusto e consistenza della carne utilizzando ingredienti vegetali, hanno riscosso un ampio successo in anni recenti, ma la corsa a trovare il sostituto ideale è ancora in atto. Secondo Bill Gates, sarà la tecnologia a offrire la soluzione grazie all’introduzione della carne coltivata in laboratorio.
La carne artificiale, prodotta facendo crescere cellule animali all’interno di bioreattori fino a diventare fibre muscolari, è recentemente stata approvata per la vendita a Singapore e promette di portare a tavola carne vera e propria, senza il bisogno di uccidere animali. Gates, che ha partecipato nel più grande round di investimenti della startup Memphis Meats nel 2020, ha dichiarato che “tutti i paesi ricchi dovrebbero passare al consumo di carne sintetica al 100%”. Al momento, l’ostacolo principali delle aziende che stanno sviluppando carni coltivate è il costo di produzione, ancora troppo alto per rendere la carne sintetica accessibile su larga scala.
L’alternativa più promettente, però, potrebbero essere gli insetti. A differenza di bovini e maiali, gli insetti possono essere allevati in grandi numeri utilizzando quantità minime di terreni, acqua e mangime. Ad oggi, circa 1,400 specie di insetti sono consumati dagli umani, soprattutto in Asia e in Africa, offrendo in alcuni casi tante proteine quanto la carne e il pesce. Le specie più comuni per il consumo umano sono coleotteri, formiche, api e vespe, cavallette e grilli, falene e farfalle. Ad oggi, vengono prodotti a livello commerciale circa 50.000 tonnellate di insetti commestibili all’anno e il numero è destinato a salire a 730.000 tonnellate nei prossimi dieci anni con l’espansione del mercato. Sempre che si riescano a superare gli ostacoli culturali.
Seppur diverse, lo sfruttamento di risorse e l’inquinamento sono attività che si influenzano a vicenda, creando un ciclo pericoloso per la sopravvivenza dell’ecosistema. Il disboscamento provoca il rilascio di diossido di carbonio stoccato nelle foreste e il rilascio di diossido di carbonio a alza le temperature, alterando gli equilibri delicati che permettono a piante, animali ed esseri umani di vivere.
Immagine in anteprima: Gunnar Richter Namenlos.net, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons