La Stampa. Lo dice l’Ecdc, il Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie, lo vanno ripetendo da noi Iss ed esperti del Cts: «In una fase nuovamente espansiva della pandemia, causa variante Delta, è più che mai indispensabile riprendere a tracciare ed isolare i contatti dei positivi». Quello che oramai anche gli italiani a digiuno di medicina ed epidemiologia hanno imparato essere il contact tracing. Che mentre lungo lo Stivale è tutto uno scintillare di nuovi focolai accesi dall’ex indiana dovrebbe spegnerli sul nascere impedendo che si trasformino in incendi, riportandoci come nel gioco dell’oca alla casella di partenza.
Se ne era accorto il governo lo scorso anno, quando ha indetto un bando per rinforzare le schiere in verità esigue, dei cacciatori di virus nelle Asl. Un rinforzo di duemila medici finiti però a far altro, perché di loro non c’è traccia nel Monitoraggio settimanale a cura dell’Iss. Erano all’incirca uno ogni diecimila abitanti un anno fa, oggi sono anche di meno, nonostante l’infornata voluta dal Ministro Speranza e reclamata dalle regioni. Che però quei duemila li hanno dirottati ad altre mansioni, dimostrando di non aver imparato la lezione impartita dal Covid durante la prima e la seconda ondata, quando le sguarnite trincee del contact tracing furono travolte dalla marea montante dei contagi. Perché l’esperienza sul campo ha dimostrato che con un solo addetto ogni 10 mila abitanti sopra i 50 casi settimanali ogni 100 mila persone i cacciatori di virus devono alzare le mani. E con il ritmo di crescita dei contagi degli ultimi sette giorni in quella situazione ci potremmo trovare già nell’arco di tre settimane, se non prima.
Con una situazione che come al solito varia da regione a regione. Nella più virtuosa Bolzano i cacciatori di virus sono due ogni 10 mila abitanti, anche se a marzo erano 6,8. Il Piemonte è a 1,4 come quattro mesi fa. Idem la Basilicata, mentre la Sicilia ne conta 1,4, unica regione ad aver raddoppiato le truppe dopo la debacle di marzo. Sotto la media di un addetto sono però ben 14 regioni. Diverse solo per uno o due decimali, ma Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Marche toccano appena quota 0,5, mentre la Sardegna è ancora più sguarnita con 0,4 addetti ogni 10 mila abitanti.
«In media per ogni contagiato dobbiamo rintracciare 20-25 persone, con duemila contagi al giorno significa doversi mettere sulle tracce di 40-50 mila contatti a rischio», spiega uno che se ne intende, Antonio Maglietta, medico infettivologo, responsabile del servizio di epidemiologia della Asl Roma 2 sul quale ricade l’onere del contact tracing. «Appena c’è un caso di positività prima isoliamo il contagiato in casa, quindi effettuiamo il tampone. Contestualmente iniziamo a chiedergli se è tornato da un paese a rischio o se ha avuto contatti con un positivo. A questo punto tracciamo il primo cerchio contattando i suoi familiari o le persone con le quali convive in una qualsiasi comunità. Poi iniziamo a tracciare il secondo cerchio, partendo con il cercare di far ricordare prima i contatti stretti degli ultimi 3-4 giorni, per passare successivamente a quelli delle ultime due settimane. È un lavoro faticoso» ammette. E anche complesso da organizzare. Ma ad oggi, documenta l’Altems dell’Università Cattolica, solo 5 regioni hanno emanato provvedimenti per definire linee guida, piani e programmi atti rinforzare l’attività di tracciamento: Abruzzo, Calabria, Liguria, Lombardia e Veneto. Tutte le altre hanno dimostrato anche sul fronte organizzativo di ignorare il problema.
Come se non bastasse si fanno poi anche pochi tamponi, senza i quali non si sa nemmeno chi bisogna tracciare. «L’attività di testing, dopo 7 settimane di calo, registra un aumento del 15,5%, continuando tuttavia ad attestarsi su numeri troppo bassi, con conseguente sottostima dei nuovi casi e insufficiente tracciamento dei contatti» documenta l’ultimo report della fondazione Gimbe. Che dalla settimana 5-11 maggio ha registrato un numero di persone testate settimanalmente progressivamente ridotto del 60,3%, passando da 662.549 a 263.213 tamponi, per poi risalire nell’ultima settimana a 303.969. Un buco nel sistema di difesa dal Covid rafforzato dalla Delta che sarà bene colmare al più presto se non vorremo ritrovarci travolti da una terza ondata. Che tutto sarebbe questa volta meno che «fatalmente inevitabile».