Per esserseli spartiti se li sono spartiti, perché dopo mesi di estenuanti trattative rinviare ancora il riparto del Fondo sanitario nazionale per oltre la metà delle Regioni avrebbe significato rischiare il default di Asl e Ospedali. Ma prima di siglare l’intesa il coro è stato pressoché unanime nel lamentare che i 128 miliardi di finanziamento per il 2023 sono poca cosa rispetto a quanto eroso dall’inflazione più tutta una serie di spese extra, in primis quelle sostenute dalle Regioni per il Covid. Ma se fin qui i Governatori sono andati a braccetto, su come dividersi la torta è stato un tutti contro tutti. Con il Nord a rivendicare i maggiori costi sanitari generati dalla sua popolazione più anziana, il Sud a lamentare lo scarso peso dato alla “deprivazione sociale”, perché maggiore povertà significa anche più possibilità di ammalarsi. In mezzo il Lazio arrabbiatissimo, perché a parere del presidente della Regione, Francesco Rocca, alcuni dei nuovi criteri di riparto fissati nel dicembre scorso lo avrebbero penalizzato.
Perché il piatto pianga lo ha spiegato l’assessore alla Sanità del Piemonte Luigi Icardi. «Sono soddisfatto del riparto 2023 solamente perché le Regioni hanno ritrovato la capacità di raggiungere l’intesa in tempi più contenuti rispetto al 2022. Ma la carenza di risorse non permette alcun festeggiamento. A livello nazionale, mancano oltre 5 miliardi per il riconoscimento delle spese derivanti dall’incremento dei prezzi di beni e servizi e dal costo per le risorse umane come rinnovi contrattuali, adeguamenti di legge una tantum, prestazioni aggiuntive e altro. L’inflazione ha poi eroso il Fondo sanitario nazionale di circa 15 miliardi in tre anni», afferma mentre i suoi tecnici quantificano in circa due miliardi l’ammanco per la regione.
In effetti a ben vedere i soldi ripartiti ora dalle Regioni della quota indistinta per il 2023 sono 120,7 miliardi, appena uno un più rispetto all’anno precedente. Per arrivare a 128 miliardi si devono sommare poi i finanziamenti extra per spese altrettanto eccezionali, ossia 1,4 miliardi per il ristoro del caro-bollette, 500 milioni per l’abbattimento delle liste d’attesa, più la pioggia di incentivi per il personale sanitario dei pronto soccorso e il fondo per i farmaci innovativi. Ma per far andare avanti l’enorme macchina di Asl e ospedali l’aumento delle risorse è stato dello zero virgola qualcosa. Per non parlare del fatto che, come ricorda il coordinatore degli assessori regionali alla sanità, l’emiliano romagnolo Raffaele Donini, il ministero dell’Economia ha continuato a fare orecchie da mercante di fronte alla richiesta di 3,8 miliardi di ristori per le spese extra sostenute a contrasto del Covid.
Fatto è che come documentato dall’ultimo rapporto della Corte di Conti, già nel 2022 sono in rosso 15 Regioni, anche se alcune di poche decine di milioni. Ma per quest’anno le previsioni sono a tinte fosche, al punto da far temere che almeno nella metà dei casi non si riesca a coprire i buchi raschiando qualcosa da altre voci di bilancio o azionando la leva dell’addizionale regionale Irpef. Se così fosse larga parte della sanità regionale italiana finirebbe di nuovo commissariata e sotto piano di rientro. Che significa poi tagliare prestazioni meno essenziali e bloccare di nuovo le assunzioni. Quelle che invece c’è bisogno di incrementare per abbattere le liste di attesa e far funzionare Ospedali e Case di comunità pensate per rilanciare l’assistenza territoriale, ma per un terzo tagliate fuori dai finanziamenti certi del Pnrr. Per finanziare adeguatamente la sanità pubblica ieri l’Emilia Romagna, prima regione a farlo, ha presentato una proposta di legge che destina a livello nazionale 4 miliardi in più l’anno per 5 anni al fondo sanitario, fino a raggiungere nel 2027 il 7,5% del Pil. Che significherebbe poi riavvicinarsi all’Europa sul finanziamento della sanità pubblica. Peccato che le coperture siano scritte sull’acqua: in prima battuta quelle reperibili da una maggiore crescita che per ora non c’è; in mancanza di questa il recupero dell’elusione fiscale e contributiva. Quello che non ha mai fatto il centro-sinistra quando era al governo e che tanto meno sembra voler fare oggi la destra dopo aver varato 12 condoni fiscali in un anno. Ma ricette a parte non un solo Governatore è disposto oggi a difendere un finanziamento considerato da tutti ampiamente inadeguato.
Le Regioni non vanno però più a braccetto quando si parla di dividersi quel poco che c’è. L’intesa del dicembre scorso ha stabilito che lo 0,75% del fondo sanitario venga assegnato in base al livello di deprivazione sociale delle varie regioni. Una novità accettata obtorto collo dai “nordisti”, convinti sostenitori del criterio di riparto basato sul peso della popolazione anziana; mentre la considerano poco più da una mancetta i governatori “suddisti”, il Governatore campano De Luca in testa, da tempo convinto della necessità di ribilanciare i finanziamenti sulla base degli indici di povertà. Resta il fatto che il tasso di mortalità per malattie cardiologiche è di 26,6 decessi ogni 10 mila abitanti al Centro-Nord e del 31, 8 al Sud, la mortalità per i tumori in Italia è di 23,9 decessi sempre per 10mila abitanti ma in Campania è al 34 e in Sardegna al 32,9. Stesse differenze per la mortalità infantile a 2,5 ogni mille nati vivi in Italia, ma a 3,2 nel Meridione. Se si vanno a vedere i soldi si scopre però che tutte le regioni del Centro e del Nord sono sopra la media nazionale di 1.961 euro ad assistito e il Sud ampiamente sotto, fino ad arrivare ai 1.820 euro della Campania. Diseguaglianze sociali e territoriali che la penuria di soldi per la sanità potrà solo accentuare. —
Paolo Russo – La Stampa