Li usano ogni giorno oltre due milioni di italiani, la maggior parte staccandoli dal blocchetto ricevuto assieme allo stipendio, altri esibendo alle casse la più tecnologica card. Quello dei buoni pasto è un mercato che vale tre miliardi l’anno, ma secondo gli addetti ai lavori è pieno di distorsioni. Se non saranno corrette minacciano – meglio rinunciare ai ticket rimettendo i soldi nelle busta paga dei lavoratori. E’ la provocazione che lancia Federdistribuzione, sigla che mette insieme un gruppo di super e iper mercati che da soli assorbono circa un terzo dei buoni pasto in circolazione in Italia. Parliamo delle card o dei biglietti cartacei che le aziende, pubbliche o private, offrono ai loro dipendenti in sostituzione di un servizio di mensa. La Legge di Stabilità ha innalzato la defiscalizzazione dei ticket portandola dai 5,90 ai 7 euro, (il tetto esentasse era fermo da 15 anni): misura che dovrebbe avere effetti positivi su consumi e occupazione.
Ma la norma, che entrerà in vigore dal primo di luglio, sarà applicata solo alle card, ai buoni elettronici, un segmento che occupa il 15 per cento del mercato. L’idea del governo è quello di incentivarne l’uso perché più sicuri e tracciabili e a parole tutti sono d’accordo, salvo levare poi gli scudi per dire che «prima di pensare a come potenziare il mercato, sarebbe utile ristrutturarlo profondamente perché distorto e inefficiente ». Così commenta Giovanni Cobolli Gigli presidente di Federdistribuzione, che indica tre emergenze da affrontare. Se così non sarà «meglio mettere i ticket in busta paga».
Secondo la grande distribuzione il problema numero uno sono le gare al massimo ribasso, utilizzate sia dalla Consip nel settore pubblico, che dai privati. Si premia la società emettitrice che presenta il maggiore sconto sul valore facciale dei buoni: in genere si arriva al 20 per cento: «Ma se la società che emette i buoni pasto è tarata su una struttura di costi per un ticket di 100 e poi lo vende a 80, è chiaro che per recuperare redditività aumenta le commissioni a carico di chi eroga il servizio». Bar, trattorie, supermercati. L’altro problema è appunto quello delle commissioni che in Italia vanno dal 6 al 15 per cento contro il 3 pagato in Francia. E per le card – premiate dalla defiscalizzazione – sono più alte rispetto a quelle applicate al ticket cartaceo (differenza media di 3 o 4 punti). Il risultato è che bar e supermercati non le vogliono, anche perché il Pos per tracciarle non è unico: in base ad una follia tutta italiana, ogni società emettitrice ne ha uno proprio. Quindi, per poter accettare i ticket più diffusi, una cassa al bar o supermercato dovrebbe esporre almeno quattro lettori. Più quello (unico) per leggere bancomat e carta di credito. In ultimo i ritardi nel pagamento: il gestore per recuperare il valore pagato con le card aspetta 40 giorni, con i buoni cartacei 120.
Sul piede di guerra sono scesi anche i piccoli esercenti di Fipe-Confommercio. «Abbiamo fatto ricorso al Tar del Lazio contro l’ultima gala ra Consip su un appalto da 1 miliardo per i ticket della pubblica amministrazione – dice Marcello Fiore, presidente Fipe – il Tar non ha sospeso la gara: andremo al Consiglio di Stato. Non basta fissare, nei criteri di gara, punteggi maggiori per chi applica commissioni basse: una volta vinto l’appalto la società che emette buoni rincara il costo di servizi venduti come facoltativi, ma che in realtà sono essenziali, come il conteggio dei buoni stessi».
Dai bar, ai supermercati, alle trattorie il fronte della protesta è compatto. Al governo si chiede di fissare tetti per le commissioni, come avviene in Francia. «Ma quello è un mercato completamente diverso – dice Luigi Ferretto, amministratore delegato di Qui Group, una delle principali società emettitrici di buoni – ci sono pochi operatori che agiscono in regime di quasi oligopolio e la normativa protegge le società nazionali. Da noi non è così, tant’è che i francesi dominano il 70 per cento del mercato. Ci sono tanti operatori, tanta concorrenza e la guerra si fa sui prezzi». L’unico passo avanti potrebbe arrivare dal Pos unico: l’accordo fra operatori, o almeno parte di questi, sarebbe vicino.
Repubblica – 20 febbraio 2015