Roberto Mania. «Perché licenziarmi se sono stata considerata idonea? Come si fa a stabilire che sono inadeguata se non mi si attribuisce un incarico? La verità è che per questa via si arriverà al licenziamento senza motivo a vantaggio dei dirigenti sodali con la politica». Barbara Casagrande, 46 anni, è dirigente in aspettativa sindacale del ministero delle Infrastrutture.
È il segretario del sindacato dell’Unadis che aderisce alla Codirp, la confederazione dei dirigenti della Repubblica. Questa confederazione è nata quasi in coincidenza con la presentazione della riforma Madia della pubblica amministrazione. Spiega Casagrande: «Nella riforma si ritorna al ruolo unico dei dirigenti. Ai dirigenti della Repubblica e non a quelli dei singoli ministeri. Eccoci!, abbiamo detto». Ma ora dicono no ai licenziamenti “modello Madia”. Ed è il no che accomuna tutti i dirigenti, vecchi, giovani, “politici” e indipendenti. In realtà già ora sono licenziabili, ma nessuno è ancora stato lasciato a casa. In più temono che i criteri introdotti dalla prossima riforma possano favorire i dirigenti esterni, scelti dal politico di turno.
I dirigenti pubblici che effettivamente hanno responsabilità sono circa 70-80 mila, praticamente lo stesso numero dei manager privati che hanno perso il posto nella lunga recessione, come ha messo in evidenza Corrado Giustiniani nel suo recentissimo “Dinosauri” che tratta proprio dei dirigenti della pubblica amministrazione. E in media, secondo un’indagine degli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi sulla voce.info, guadagnano molto di più dei loro colleghi sparsi per l’Europa. Un esempio: i 300 dirigenti apicali delle Regioni guadagnano circa 150 mila euro quanto il capo di gabinetto del Foreign Office britannico. La proposta del governo prevede un ruolo unico per tutti i dirigenti, un complesso sistema di valutazione sulla base del quale affidare gli incarichi, la possibilità di essere licenziato dopo 2-3 anni senza incarico. «Era meglio De Mita», sostiene Arcangelo D’Ambrosio che, più o meno, guida la Dirstat, sindacato di categoria un po’ in declino, dai tempi della prima Repubblica. Parla di «ghetto punitivo del ruolo unico ». «Ogni giorno — dice — i dirigenti devono difendersi dall’invadenza della politica. Con l’abolizione dell’area quadri decisa dal governo Monti, i dirigenti non hanno più un gruppo di collaboratori di qualità sotto la propria responsabilità ». Dirigenti un po’ spodestati. Privati anche della possibilità di valutare le strutture, aggiunge la Casagrande. «E sa perché? Perché si oppongono i sindacati confederali che rappresentano gli impiegati. Loro non vogliono che il dirigente esprima una valutazione». Dietro le quinte si combattono così le guerre tra lobby: dirigenti contro impiegati, sindacati confederali contro sindacati autonomi. Ciascuno difende la propria area di consenso sociale. È la burocrazia che divora se stessa.
Il nodo da sciogliere resta il rapporto dei dirigenti con la politica. Secondo Giovanni Faverin, leader dei pubblici dipendenti iscritti alla Cisl (ci sono anche molti dirigenti), «non è cambiato molto rispetti ai tempi di Paolo Cirino Pomicino e Giulio Andreotti. Quello dei licenziamento dei dirigenti è un falso problema. È che vogliono introdurre uno spoils system all’italiana: lo dicessero senza ipocrisie ma non è certo questo il modo per far funzionare un’organizzazione disorganizzata ».
«Non può essere un caso — dice C. V., dirigente statale quasi in pensione, costretto a richiedere l’anonimato perché per poter parlare con la stampa deve avere prima l’autorizzazione della sua amministrazione — che la quota di dirigenti a contratto, cioè cooptati dalla politica, si impenni fino al 30 per cento negli enti locali lì dove è più forte il rapporto tra i dirigenti e i potenti locali. Noi vorremmo essere valutati esclusivamente in base al merito, vorremmo essere valorizzati non puniti. Brunetta aveva posto le premesse per la valutazione delle performance. Che fine hanno fatto? Perché si cambia di nuovo con la Madia? A che serve l’ennesima riforma della dirigenza della pubblica amministrazione? Non ci resta che osservare tutto con distacco: senza paura e senza speranza. Questa, come altre, è una riforma senza senso».
Repubblica – 17 marzo 2015