Il settore vale 52 miliardi l’anno ma la grande industria si rifornisce all’estero. Il record degli ulivi più antichi del mondo Valle Salimbene, dove il Ticino — appena lasciata Pavia — sta per entrare nel Po, c’è la Cascina Busto di Ferro. Qui Luigi Chierico, 63 anni, ha cominciato nel 1988 a mettere in salvo le razze delle tradizioni agricole italiane, quelle che una modernizzazione a volte precipitosa stava spazzando via dalle stalle, un po’ come la moda dei pensili di formica aveva fatto sparire dalle cucine tavoli e credenze di legno massiccio.
Luigi, anzi Luigino per la comunità di allevatori e ricercatori che nel tempo lo hanno seguito, ha in stalla almeno venti tipi di vacche — Varzese, Rendena, Grigia Val d’Adige, Valdostana, Bionda tortonese, Savoiarda, Cabannina —, ma anche capre orobiche, girgentane e bionde dell’Adamello, poi l’asino spagnolo e amiatino, e persino il maiale della Neve, un suino particolarmente grasso che ha visto le sue azioni precipitare proprio a causa di quella caratteristica. Questa Arca di Noè in piena Pianura Padana è una vera cassaforte di biodiversità. Ma perché? Che significa? Luigino sfila un momento l’inseparabile berretto e guarda attraverso l’aia: «Perché questa è la normalità, questa è la vita». Ed è anche il punto di arrivo di questo viaggio nell’agricoltura italiana e nella sua straordinaria ricchezza, che riflette fedelmente quella dei paesaggi, delle terre, della storia e, in fin dei conti, della gente.
Cinquantadue miliardi di euro come la Germania — una ventina meno della Francia — è il valore dell’agricoltura del nostro Paese: ma le similitudini con gli altri due maggiori attori europei, come con le altre nazioni dell’Unione, finiscono qui. Nel rapporto annuale dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria, un grafico a forma di torta spiega immediatamente perché: le fette che raffigurano i vari comparti e il relativo peso sono ben 12, con la più consistente — la carne — che supera appena un quinto del totale (ma anch’essa è la somma dei distinti settori delle carni di bovino, maiale, pollo, eccetera). In Germania, invece, la carne rappresenta un buon quarto del valore, in Irlanda addirittura il 41%. Gli ortaggi, vicini al 15%, sono la seconda voce del nostro bilancio; le attività di supporto (svolte dai contoterzisti delle imprese agromeccaniche) rappresentano la terza fetta, vicina al 13%; poi, con pesi che scendono dall’11,1% all’8,4%, ci sono frutta, latte, cereali, prodotti vitivinicoli. Per la Germania hanno più peso latte e cereali, quasi niente frutta e uva. La Danimarca affida a carne e latte il 63% della sua produzione, superata dall’Irlanda che arriva al 68%. Sono torte con meno fette, ma con porzioni più generose. Sulla tavola italiana, invece, c’è davvero di tutto: «E questa varietà è un punto di forza che dobbiamo imparare a gestire meglio — avverte Roberto Pretolani, dal Dipartimento di Economia e Management della Statale di Milano —. Prendiamo la crisi di mucca pazza: per Paesi come Francia e Inghilterra, dove gli allevamenti bovini hanno tanto peso economico, è stata molto più pesante che per l’Italia dove, avendo un’agricoltura molto diversificata, è stato possibile assorbire meglio il colpo. D’altra parte le economie con uno-due punti di forza possono trattare con più disinvoltura in sede comunitaria, cedendo sulle produzioni non principali: per noi, invece, sono principali praticamente tutte». È una conferma di ciò che il milione e mezzo di agricoltori italiani già sa: non è sui grandi numeri che il tricolore vince. «Tanto che spesso i nostri grandi produttori di pasta si riforniscono di grano all’estero — spiega Pretolani — perché i volumi produttivi nazionali non assicurano costanza di approvvigionamento». È con la diversità e nella varietà che invece si possono affrontare i nuovi mercati globali, ma — insiste il professore — senza dimenticarci quello nazionale: «Ci vuole più organizzazione, mentre ora ogni azienda fa per conto suo: anche a questo dovrebbero servire i consorzi di tutela e i marchi di qualità. E poi dobbiamo porre più attenzione al mercato interno: in questi anni di crisi l’export ha fatto da traino, ma la concorrenza c’è e non si può pensare di vivere solo di esportazioni. Nel contempo non produciamo quanto basta al nostro fabbisogno: l’obiettivo dovrebbe essere l’equilibrio fra produzione e consumi».
Questo è anche l’anno di esordio della nuova Pac, la politica agricola europea che offre risorse in ribasso (da oltre 4 miliardi ai 3,7 del 2019), impone la diversificazione delle colture oltre i 10 ettari (questo riguarderà soprattutto il mais in Pianura Padana e il frumento nelle Puglie), lega ancora più strettamente i contributi al mantenimento di colture ed aree ecologiche. E assicura, però, incentivi a chi finora non ne aveva, e soprattutto a chi fa conservazione e manutenzione dei territori di montagna. Dalle Alpi al più povero Appennino, le aziende agricole sopra i 600 metri sono 280 mila e rappresentano una risorsa e una scommessa che vanno anche oltre la produzione di latte, formaggi, frutta, miele e ortaggi unici per qualità e gusto. Dagli anni Sessanta in poi, lo spopolamento delle terre alte non ha lasciato solo paesi fantasma, ma ha anche indebolito un territorio sul quale non si fa più la manutenzione. Ha cancellato un’economia povera ma sobria, che produceva poco e consumava meno. Ritrovare quella sobrietà fatta di tradizioni per guardare al futuro è una ricetta che oggi molti economisti indicano. È la scommessa di Daniele Fossati, 31 anni: ha riportato in Valle Staffora, sull’Appennino tra Pavia, Piacenza e Liguria, le vacche varzesi, che valicarono le Alpi al seguito di Annibale e oggi aiutano a recuperare i pascoli invasi dalla boscaglia. Sta per aprire il suo caseificio, con la benedizione di Regione e Ue: «E alterniamo le colture di ortaggi, patate, grano», dice. Ad affiancare la sfida di questo e altri allevatori, il gruppo di lavoro sulla biodiversità bovina guidato da Daniele Vigo, del Dipartimento Veterinaria della Statale di Milano: ci sono anche i chimici della Sapienza di Roma, la Cornell University di New York, da Pavia i dipartimenti di Farmacia e di indirizzo storico di Lettere. «Perché in Italia abbiamo non meno di 20 tipi di latte, quante sono le varietà di vacche — spiega Vigo —. Recuperare questi allevamenti e questi prodotti non è un’idea strana. Significa riprendere un percorso che nel nostro Paese è iniziato tre secoli fa ed è stato interrotto negli anni Sessanta: si tratta di riportare su ogni territorio gli animali che vi si adattano (quindi non si ammalano, non hanno bisogno di medicine) per ottenere prodotti di altissimo livello». Prodotti in grado di affermarsi sul mercato e chiudere il cerchio «economia, territorio, generazioni future».
Nel viaggio dalle aziende agli scaffali dei negozi e soprattutto dei supermercati si incontra un altro vecchio nodo insoluto dell’economia agricola: i prezzi, cominciando da quello del latte. Prossimo l’addio al regime delle quote Ue e con il nuovo marchio unico «100% italiano» voluto dal ministero, resta comunque a 36-40 centesimi per litro l’incasso dell’allevatore, mentre il consumatore che acquista lo stesso litro spende fino a un euro di più. Per questo in Lombardia — che pure con il 40% della produzione è la prima regione italiana — le stalle chiudono al ritmo di 13 al mese: «Tenere duro non è semplice. Dico a me stessa che la mia famiglia ha superato la crisi del ‘29 e due guerre: non sarò certo io a mollare» dice con orgoglio Paola Paietta, 51 anni, che a Stagno Lombardo (Cremona) guida un’azienda con 870 bovini e una tradizione che risale al tempo di Maria Teresa d’Austria. Da Catania le fa eco un giovanissimo, Giovanni Pappalardo, 29 anni: «Qui, e solo qui, alle pendici dell’Etna, su terreno lavico, si producono le arance rosse: ma se il prezzo va sotto i 30 centesimi al chilo si lavora in perdita. La passata stagione siamo arrivati anche a 7 centesimi, quest’anno siamo tra i 20 e i 40, ma perché la produzione è calata del 40%».
Eppure il ritorno alla terra non è la scommessa da utopisti che potrebbe sembrare: nell’ultimo trimestre del 2014 l’occupazione del settore ha segnato +7,1%. «Ero analista finanziaria, oggi mi occupo dell’azienda di famiglia: latte, foraggere ed energie rinnovabili» è il sereno bilancio di Benedetta Rospigliosi, 40 anni, dalla cascina Barosi, nel Cremonese.«Forse lo studio da progettista rendeva di più, ma questa è la mia vita», racconta da Caprarica di Lecce l’ingegner Pantaleo Piccinno, 54 anni: trentamila ulivi, dei quali 1.500 — «monumentali» secondo i criteri di legge — superano anche i dieci secoli di vita. «In Italia abbiamo 350 cultivar, la Spagna non più di quattro. Anche quello è extravergine, ma non ha le caratteristiche organolettiche e salutistiche del nostro olio». Ovvero: costa meno, ma vale anche molto, molto meno.
Questi «contadini d’Italia», infine, guardano anche alla vetrina dei 148 Paesi «concorrenti» che sta per aprirsi a Milano: «Expo è un’occasione di conoscere e farsi conoscere» dice Lucia Fedeli, 52 anni. Alla cascina Battivacco alla Barona, al margine della grande città ma anche al centro del sistema basato sui Navigli (4.300 chilometri di canali), coltiva riso e spiega ogni giorno ai ragazzi delle scuole in visita alla fattoria didattica che «Milano è una città di campagna».
Il Corriere della Sera – 17 marzo 2015