di Luigi Oliveri da ItaliaOggi. La riforma del lavoro a tempo determinato, contenuta nel di 34/2014 convertito in legge 78/2014 la scorsa settimana, non si applica al lavoro pubblico. Il nuovo contratto a tempo determinato si caratterizza per la totale acausalità del contratto a termine nei suoi primi 36 mesi, cui consegue la possibilità di una serie di cinque proroghe, senza alcun obbligo di pause, purché sia garantito che si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. L’acausalità significa che non è necessario indicare le ragioni che giustificano l’utilizzo del contratto a termine invece di quello a tempo indeterminato, che dovrebbe costituire la regola. Di conseguenza, il lavoratore viene assoggettato alla totale discrezionalità del datore, che è messo in condizione di assumere a tempo determinato, senza rischi di contenzioso, anche per attività lavorative e fabbisogni continuativi.
Lo stesso, in sostanza, vale per le proroghe. Una limitazione a questa estrema discrezionalità del datore, consiste nel tetto alle assunzioni a termine pari al 20% del personale in servizio a tempo indeterminato, per altro violabile e colpito solo da una sanzione economica compresa tra il 20 e il 50% del trattamento economico.
Proprio la ratio e lo schema operativo della riforma portano inevitabilmente a concludere che il lavoro pubblico ne sarà in gran parte estraneo. In primo luogo, perché il lavoro pubblico è sorretto dal principio, opposto a quello del sistema privatistico, della «causalità obbligatoria» del lavoro a termine, per altro recentemente rafforzata dal di 101/2013, convertito in legge 125/2013. La riforma del lavoro a termine non incide la piena operatività dell’articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001, come recentemente modificato dal di 101/2013, per effetto del quale il contratto a termine deve essere obbligatoriamente «causale».
Le amministrazioni possono utilizzarlo esclusivamente per esigenze di carattere temporaneo o urgente, da motivare molto approfonditamente, pena la nullità del rapporto e la pesante responsabilità erariale dei dirigenti che lo avviino.
Dunque, è radicalmente impossibile estendere al lavoro pubblico il fondamento stesso della riforma del dlgs 368/2001, cioè l’eliminazione della causa giustificativa del rapporto a termine. Mancando la base, l’intero impianto non può applicarsi al lavoro pubblico. Non il tetto alle assunzioni flessibili entro il 20% del personale in servizio, che ha il solo scopo di mitigare la discrezionalità del datore, abilitato ad assumere senza causale.
Per le amministrazioni pubbliche, invece, valgono i tetti finanziari posti alle assunzioni flessibile dalle varie norme ordinamentali: per gli enti locali il tetto è pari al 50% della spesa sostenuta nel 2009, con deroghe per il personale della polizia municipale, della scuola e dei servizi sociali.
In assenza di una disciplina speciale nel dlgs 165/2001, invece, si dovrebbe ammettere che anche per la pubblica amministrazione valga la durata massima di 36 mesi e la possibilità di cinque proroghe senza interruzioni, nell’arco della durata del rapporto a tempo determinato. Tuttavia, occorre sottolineare che il rilevante numero di proroghe stride non poco con la configurazione del lavoro a termine nella pubblica amministrazione.
Infatti, in un quadro di estrema flessibilizzazione del lavoro a termine, come nel privato, la possibilità di ripetere, senza pause, per un numero molto consistente di volte il rapporto appare coerente. Invece, nel sistema del lavoro pubblico, caratterizzato irrinunciabilmente dalla causalità del lavoro a termine, finalizzata anche a impedire la formazione di precariato causata dall’impossibilità di trasformare i lavori a termine in contratti a tempo indeterminato, l’inanellamento di cinque proroghe di contratti a termine sembra oggettivamente contrastare con i presupposti indicati dall’articolo 36, comma 2, del digs 165/2001.
Infatti, esso impone al datore pubblico di esplicitare le ragioni straordinarie o urgenti di ricorso al lavoro flessibile, indicando, indirettamente, anche di predeterminare il più correttamente possibile la durata massima del fabbisogno di lavoro flessibile, agganciando, dunque, la causa giustificativa a una programmazione nel tempo dell’impiego del rapporto a termine o somministrato. In ultimo, poiché la ragione fondante della riforma è eliminare il rischio che in sede giudiziaria i giudici del lavoro convertano il lavoro a termine in lavoro a tempo determinato sindacando l’assenza della causa, visto che questo rischio è del tutto inesistente nel lavoro pubblico per il divieto di trasformazione dei contratti, l’impianto complessivo della riforma non si presta ad estendersi alla pubblica amministrazione.
ItaliaOggi – 23 maggio 2014