Giorgia Marino. La revisione della legge 394 del 1991 – la legge quadro che regolamenta Parchi e Aree Protette – è approdata ieri alla Camera, dopo che il testo approvato in novembre dal Senato è passato in commissione ambiente. È dunque vicino il varo di un provvedimento riveduto e corretto, eppure ancora molto contestato da diverse associazioni ambientaliste, prima fra tutte il Wwf, la Lipu e Italia Nostra, che lamentano un’inversione di rotta rispetto al percorso virtuoso intrapreso da quella storica legge di 25 anni fa. Una pietra miliare nella storia dell’ambientalismo italiano. Arrivò infatti a colmare un vuoto legislativo che poneva l’Italia un gradino indietro rispetto alla maggior parte dei Paesi europei, consentendo tra l’altro di raggiungere l’obiettivo del 10% di territorio sotto tutela.
Se dopo un quarto di secolo una riforma era necessaria, sulla direzione da intraprendere il mondo ambientalista nostrano si spacca. Per Ermete Realacci (Pd), presidente della commissione ambiente e territorio, «l’obiettivo della riforma è rendere le Aree Protette un modello di sviluppo per l’intero Paese, incrociando natura e cultura, coniugando la tutela e la valorizzazione del territorio e delle biodiversità con la buona economia, sostenibile e più a misura d’uomo». Insomma, un’idea di parco che non escluda finalità economiche. E soprattutto una gestione delle aree protette che coinvolga in tutto e per tutto le comunità locali, intese non solo come enti, ma anche come soggetti portatori di interessi privati, quali agricoltori, pescatori, operatori turistici. «Un coinvolgimento imprescindibile – commenta Realacci – soprattutto per la conformazione frammentata del territorio italiano: qui da noi, senza le comunità, il parco non si può fare».
Preoccupata è invece una buona parte del mondo ambientalista, che teme sia il prevalere di interessi economici privati sulla tutela del patrimonio naturale, sia l’impreparazione di potentati e politici locali in materia di aree protette. «Con questa riforma – si legge in una nota del Wwf – non solo non ci sarà bisogno di competenze specifiche per direttori e presidenti di parco, ma la governance delle Aree Protette viene spostata dallo Stato (come previsto dalla Costituzione) verso il livello locale, coinvolgendo portatori di interessi economici specifici e indebolendo gravemente la tutela degli interessi generali rappresentati dallo Stato».
Se i punti di criticità esistono, ci sono però alcune novità di rilievo: tra queste, l’introduzione di un Piano nazionale triennale, per favorire la concertazione fra Regioni e Governo, che sarà finanziato con una dotazione annuale di 10 milioni di euro. Sono inoltre stati rafforzati divieti importanti come quello di ricerca ed estrazione di idrocarburi, esteso anche alle aree contigue ai parchi.
Soldi, sponsor e gestione: i motivi dello scontro
Le nuove norme prevedono una rivoluzione nel sistema di tutela ambientale. Ma non piace ai puristi dell’ecologia
Roberto Giovannini. Tra i promotori della futura riforma dei Parchi ci sono fior di ambientalisti, tra cui tre ex-presidenti della serissima Legambiente (Roberto Della Seta, Francesco Ferrante, e l’attuale presidente della Commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci). Eppure, altrettali fior di ambientalisti – Fulco Pratesi del Wwf, per citarne uno solo – dicono che la riforma crea danni gravissimi al patrimonio naturale italiano.
Tutelare. Ma come?
Il punto di disaccordo fotografa un dibattito che attraversa da almeno trent’anni il movimento ecologista e ambientalista italiano. Per alcuni, tutelare veramente un paesaggio naturale e un territorio, non è possibile con dei compromessi. Ogni commistione tra economia e tutela apre la strada alla devastazione, e per salvare un ambiente l’unica cosa da fare è tenerne fuori rigorosamente l’economia. Per gli altri, invece, questa è una soluzione non realistica per un territorio come l’Italia, dove nelle aree a parco nazionale abitano migliaia di cittadini che devono pure vivere. E dunque, l’unico modo per tutelare un territorio naturale è quello di siglare un buon compromesso, facendo virare in senso «verde» l’economia.
Sono due approcci molto diversi, ma che hanno ambedue senso e razionalità. Ognuno di noi è in grado di fare le sue valutazioni: visto che c’è la mafia non si devono più fare infrastrutture? Oppure le infrastrutture vanno fatte anche quando sono inutili, e i proventi vanno a Cosa Nostra?
Il sistema parchi in Italia
In Italia esistono 871 aree protette, per un totale di oltre 3 milioni di ettari tutelati a terra, circa 2,850 milioni di ettari a mare e 658 chilometri di costa. Ci sono i parchi nazionali (24, di cui 22 veramente operativi, con 1,5 milioni di ettari a terra e 71 mila a mare); le 27 Aree marine protette (circa 222 mila ettari, cui vanno aggiunti due parchi sommersi e il Santuario internazionale dei mammiferi marini «Pelagos», con altri 2,5 milioni di ettari protetti); 148 riserve naturali statali; 134 parchi naturali regionali; 365 riserve naturali regionali; 171 altre aree protette di diverse classificazioni.
Sulla carta non è malaccio: è tutelato ben il 10,50% del territorio nazionale. In più ci sono oltre 2300 siti difesi in vario modo (molto meno stringente) dall’Unione europea, e indicati dalle Regioni. Considerando dunque le aree che fanno parte della rete Natura 2000, ecco un altro 10,5% del territorio italiano più o meno protetto. Il doppio rispetto alla media europea, con aree che custodiscono tantissime specie animali e vegetali che sono una preziosa risorsa di biodiversità. Ma come sappiamo, non sempre le aree protette lo sono veramente.
La legge 394 e la riforma
La svolta è stata la legge 394 del 1991, grazie alla quale la fetta di Italia tutelata è passata dal 3 all’10,50%. Di più, sono stati riscoperti territori di pregio fino ad allora marginali, che hanno ritrovato interesse e ricevuto risorse pubbliche. Basti pensare a cosa erano la Val Grande o l’Aspromonte prima della nascita dei parchi. Ma è un fatto che purtroppo (con qualche eccezione) tra Nord e Sud ci sia un grande divario, con parchi – come il Circeo, il Gargano, quelli calabresi o campani – che di «protetto» hanno davvero troppo poco.
Che la legge andasse rivista e modernizzata era necessario, ma secondo gli oppositori si è andati troppo in là nel favorire una qualche compresenza della società, del territorio e dell’economia nella gestione delle aree protette. Anche i fautori della riforma concedono che nel nuovo testo ci sono errori. Ad esempio, appare strano che tra le competenze richieste ai presidenti dei parchi non ci siano quelle relative all’ambiente (anche oggi è così, e le nomine sono fatte direttamente dal ministero dell’Ambiente). Facile pensare che prima o poi la poltrona di presidente del parco entri nel mirino di politici più o meno trombati. Stesse perplessità riguardano le royalties per chi svolgesse attività economiche impattanti nelle aree protette, come funivie e cabinovie ma anche imbottigliamento di acque minerali. Difficile immaginare un parco nazionale costellato di piste da sci e pieno di gitanti sugli skilift, o camion a far uscire bottiglie di minerale frizzante.
L’Abruzzo non è Yosemite
Eppure la riforma sembra se non altro fotografare un dato reale di un Paese come il nostro. È difficile immaginare un territorio protetto, senza o contro una popolazione che lo viva e che ne tragga anche vantaggi. Come fa il Parco d’Abruzzo -?dove vivono e producono migliaia di residenti – a funzionare con le stesse regole dello Yosemite Park, in California, dove il 90% dell’area è di proprietà pubblica e gli unici abitanti stabili sono un pugno di guardaparchi?
E dunque: si può davvero costruire un’economia della natura, ben integrata con l’ambiente da regole intelligenti?
La Stampa – 28 marzo 2017