di Paolo Giordano, Il Corriere della Sera. Un anno fa in questi giorni stavamo incubando, inconsapevoli, la prima ondata di contagi. Non cercando infetti, non ne trovavamo. Non trovandone, per noi non esistevano. Finché d’un tratto si sono manifestati. È possibile che oggi, seppure in una consapevolezza molto diversa, stia accadendo qualcosa di analogo. Si parla di varianti del virus ormai da mesi, ma se ne parla in un modo indiziario, dovuto alla scarsità di dati.
Non cercando abbastanza le varianti (cioè non sequenziando a sufficienza), non le troviamo. Non trovandole, per noi non esistono o esistono poco. Fino a quando, d’un tratto, si manifesteranno.
A prescindere che il governo nascente scelga una continuità o una discontinuità di guida nella gestione pandemica, la mutabilità del virus dovrà essere posta al centro della strategia, non come eventualità ma come assunto di partenza. Mutabilità intesa nel senso più ampio del termine, non solo come l’insieme delle varianti riscontrate fino a qui — inglese, sudafricana, brasiliane —, ma come l’infinità delle altre potenziali e sconosciute.
Una precisazione. Ogni volta che si menzionano le varianti, soprattutto quella inglese, arriva puntuale la nota di conforto: è vero, la variante è più trasmissibile, ma non sembra essere più letale, quindi poco importa. Si tratta di un errore. In circostanze di diffusione sostenuta come quella attuale, vale semmai il contrario: una trasmissibilità più alta è perfino peggiore di una letalità più alta. Peggiore in senso stretto, perché produrrà infine più morti, nonostante le parole c’ingannino al riguardo. La ragione è ancora una volta nella matematica del contagio: se una letalità aumentata produce di per sé un aumento proporzionale dei decessi, una maggiore trasmissibilità causa una crescita delle morti esponenziale.
Uno studio preliminare della Northeastern University mostra una probabilità elevata che in città come Milano e Roma la variante inglese (manifestamente più trasmissibile del virus originario) diventi dominante entro la fine di marzo. Sono scenari basati su simulazioni numeriche, con le loro assunzioni specifiche e i loro intervalli di confidenza, ma sono l’unico spiraglio sul futuro prossimo di cui disponiamo. E dovrebbero guidare l’azione.
Esiste poi un’incognita ancora più grave, legata alla campagna di vaccinazione in corso. Nessuno scienziato — nessuno — è in grado di prevedere che cosa comporti effettuare un’immunizzazione su larga scala in termini di trasformazione del virus. Siamo di nuovo in territorio inesplorato, dopo un anno di tutto questo, sì, anche se ci pare impossibile, un territorio dove si può solo tirare a indovinare. L’imporsi di una variante non avviene infatti in sé e per sé, non riguarda il virus e basta, come nulla in un’epidemia. È un processo dinamico che coinvolge i suoi errori casuali di trascrizione e, contemporaneamente, il suo interagire con la popolazione in cui si diffonde. È plausibile che le vaccinazioni generino una competizione evolutiva più accanita fra il virus e noi, incoraggiandolo a mutare più rapidamente ed efficacemente. Di sicuro, il rischio aumenta se la circolazione rimane elevata. Più lasciamo al virus spazio di mutazione più è probabile che lo sfrutti, e non a nostro vantaggio. Fino al punto di selezionare, magari, una variante che abbia un sostanziale «escape immunologico», che sappia cioè eludere gli anticorpi stimolati dai vaccini. Potrebbe significare ricominciare da capo. Non c’è evidenza che sia già successo o che succederà, ma è possibile. E non esiste contrasto efficace alla pandemia che non tenga conto del «possibile» nella sua totalità. Questo lo abbiamo imparato.
L’Istituto Superiore di Sanità dovrebbe rendere noti domani i risultati di uno screening sulla diffusione delle varianti nel nostro Paese. È difficile credere che il campione preso in esame sarà abbastanza ampio da risultare esaustivo, nondimeno si tratta di un passo nella direzione giusta. Ma lo screening fotografa il presente e noi non possiamo procedere in avanti guardandoci i piedi. La cautela verso ciò che non sappiamo, verso le mutazioni in questo caso, c’impone di essere più ambiziosi: di abbassare la trasmissione virale a ogni costo mantenendo tutte le restrizioni sopportabili, anzi rafforzandole, di ritornare al più presto in un regime di monitoraggio e poi di mantenerlo. È l’atto di responsabilità a priori di cui siamo stati incapaci lo scorso inverno, è ciò che stanno facendo Paesi come Francia, Germania e Israele. Ed è il contrario esatto degli allentamenti di cui si vocifera, il contrario di questo esserci adagiati su un andamento fuori controllo solo perché ci appare costante.
C’è un’altra analogia con il febbraio 2020 che vale la pena di rilevare: la predominanza ritrovata del discorso economico su quello della sicurezza sanitaria, questa volta nella forma più attraente di duecento miliardi di euro da allocare. L’attenzione al Recovery Plan è più che legittima, così come lo è quella alle dinamiche di formazione del nuovo governo, ma i cambiamenti in corso stanno nella sostanza «assorbendo» il discorso pandemico, relegandolo a un sottofondo, a un ipotetico normale. In aggiunta, molti di coloro che mantengono un atteggiamento lucido sulla pandemia, e che quindi riconoscono il rischio attuale per quello che è, si sono sovraesposti mediaticamente negli ultimi mesi. La sovraesposizione li ha resi a loro volta organici alla crisi, quindi più deboli nei messaggi. Anche questa è una mutazione, e incide.
Tutto quanto, insomma, concorre a creare una pericolosa illusione di familiarità con il contagio. Mentre la pandemia dovrebbe restare un elemento eccedente a ogni discorso, fino a quando non sarà davvero finita. Che ci sembri impossibile dovercene ancora occupare così non ha importanza. Che non sia ciò di cui abbiamo voglia ancora meno. Questo è un momento in cui serve, di nuovo, uno scatto in avanti, di energia e di immaginazione. Uno scatto, soprattutto, di protezione.