La fine del ceto medio non c’è stata; c’è, invece, “un nuovo ceto medio”. Più sobrio nei consumi, attento alla qualità dei prodotti alimentari, non disdegna low cost né fai-da-te.. E fa della cultura il proprio tratto distintivo. Così lo descrivono gli ultimi studi degli esperti
Roberto Mania. Il ceto medio ha resistito alla lunga recessione. Non è morto — come in molti preconizzavano — ma è cambiato. La fine del ceto medio non c’è stata; c’è, invece, “un nuovo ceto medio”. Più sobrio nei consumi, attento alla qualità e autenticità dei prodotti alimentari, capace di rinunciare al superfluo e anche più, ricco di “capitale culturale” meno di “capitale economico”, fruitore del low cost e protagonista del fai-da-te, cosa che solo negli anni Ottanta e Novanta avrebbe evitato accuratamente di mostrare. Altra epoca.
La polarizzazione sociale, in alto e in basso, non si è realizzata in Italia, nonostante la doppia recessione, l’impennata della disoccupazione e la conseguente caduta complessiva del reddito disponibile. Chi sta nel mezzo (circa 34 milioni di persone) difende con orgoglio la propria appartenenza di ceto perché il ceto — come sosteneva Max Weber — è quel che gli altri ti riconoscono, per questo è diverso dalla classe sociale. Sia chiaro, il nuovo ceto medio ha grande paura di scivolare in basso, ma non vuole confondersi con i ceti popolari o le classi sociali inferiori, punta, piuttosto, a mischiarsi sul piano culturale con quelli che stanno in alto. E marca pure le distanze da quella parte dello stesso ceto medio ora in ascesa (non stabilizzato, dunque), debole sul versante culturale — parvenu , insomma — , che non esita a definire con un po’ di disprezzo “tamarro” o “maraglio”. Perché l’indagine sul nuovo ceto medio (la prima di questo tipo) è stata condotta a Milano e Bologna da tre sociologi, Roberta Sassatelli, Marco Santoro e Giovanni Semi e pubblicata ora in un volume ( Fronteggiare la crisi , il Mulino).
Bisogna sentirsi ceto medio, certo, ma anche esserlo. E esserlo si traduce nello stare a metà dal punto di vista economico, del reddito disponibile, del patrimonio posseduto, dei consumi. La profondità della crisi economica e la sua inedita durata (quasi sette anni) hanno accresciuto le distanze ma non hanno svuotato il bacino di chi sta in mezzo che è rimasto uguale. La depressione di questo secolo, infatti, ha trascinato verso il basso sia una quota di appartenenti ai ceti superiori sia una quota del ceto medio, lasciando così inalterato dal punto di vista quantitativo (dal 1985, secondo l’Istat) la fascia mediana della popolazione, e soprattutto dei consumatori. Che, tuttavia, sente un terreno instabile sotto in piedi. Tant’è che nelle ultime indagini di Ilvo Diamanti la percentuale di chi si sente ceto medio è progressivamente diminuita: era il 53 per cento nel 2006, è passata al 48 nel 2008 per scendere al 42 nel 2015. L’ultima inchiesta del Centro Einaudi con Intesa Sanpaolo dice che il ceto medio è sceso sotto il 40 per cento, al 38,5. Nello stesso tempo il livello della spesa delle famiglie italiane è diminuito di più tra le famiglie borghesi (-7 per cento) rispetto a quello della classe media impiegatizia (-3) e della piccola borghesia autonoma ( -2,5) che hanno subito una discesa simile alla classe operaia (-3,3). Conferma queste tendenze uno studio di un economista della Banca d’Italia Andrea Brandolini (I bilanci delle famiglie italiane dopo la Grande recessione) nel quale si dimostra che mentre dal 2003 al 2007, il quinquennio precedente il fallimento della Lehman Brothers che ha scatenato la tempesta finanziaria e sociale in mezzo globo, è cresciuta del 4,2 per cento in maniera uniforme tra i gradini della scala sociale, dal 2008 al 2012 (gli anni della crisi) la caduta (-10,4 per cento) è stata condivisa a tutti i livelli «ma è stata minore per quelli centrali e maggiore per quelli sia in basso sia in alto». Aggiunge Brandolini: «L’approssimativa simmetria delle variazioni spiega perché l’indice di Gini, una misura sintetica della disuguaglianza, sia rimasto virtualmente costante al 31 per cento». Insomma la nostra middle class ha mantenuto la sua centralità, e i passaggi dall’alto verso il centro e dal centro verso il basso si sono compensati lasciando apparentemente inalterato il tasso di diseguaglianza.
La polarizzazione, allora, non c’è stata. Ma c’è stato e c’è un cambiamento nei consumi del ceto medio che ha fatto i conti con la crisi. E quel che accade nel ceto medio rende più evidente quel che si realizza nel ventre profondo della società. «Consumi meno vistosi e più di nicchia, più selezionati», spiega la Sassatelli, docente di Consumer culture, contemporary sociological theory e Sociologia dei processi culturali all’Università di Milano. «C’è — dice Sassatelli — sobrietà nei consumi, con l’attribuzione alla sobrietà di un valore estetico e non ascetico. Il posto di un consumo vistoso, quello, per capirci, dell’epoca dell’edonismo reaganiano, è stato preso da un consumo sottotono, understatement .
Dall’orchidea si è passati alla margherita. Negli anni pre-crisi si compravano due, tre paia di scarpe all’anno. Ora ne basta un paio». I consumi sono stati l’atto identificativo del ceto medio novecentesco, ora segnano la metamorfosi.
Prendiamo la casa, che resta il possesso simbolo della classe media italiana. Tanto che la percentuale più alta di spesa destinata all’abitazione si registra proprio tra gli appartenenti al ceto medio: il 38 per cento, contro il 36,6 della borghesia e il 35,7 della classe operaia. La crisi ha rattrappito il mercato abitativo. Non potendo comprare case più grandi, il ceto medio — si legge nella ricerca — ha risolto «il conflitto tra un desiderio di spazio che supera le possibilità economiche, abbattendo le mura interne, eliminando la distinzione tra cucina e tinello e ricorrendo ad arredamenti pensati ad aumentare la fruibilità dello spazio, come nel caso di marchi di successo come Ikea e Habitat». E poi nell’arredamento si recuperano oggetti vecchi, usati, comprati ai mercati, su Ebay, ricevuti da un parente, addirittura trovati per strada. Spesso vengono riadattati, ridipinti. «Il fai-da-te e il low cost — affermano i tre ricercatori — diventano così elemento personalizzante dell’ambiente domestico, metabolizzato come marca della propria individualizzazione e competenza culturale».
Ed è proprio la cultura l’elemento qualificante del nuovo ceto medio urbano. Le spese per la cultura sono scese ma la fruizione di cultura diventa il tratto distintivo. «Sono questi consumi più di altri ad essere indicati (nelle interviste registrate durante la ricerca, ndr ) come elementi caratterizzanti uno stile di vita, una identità». È così che la middle class si avvicina alla classe superiore, in un processo di unificazione della classe media impiegatizia, che in questo caso si distingue dalla cosiddetta “piccola borghesia autonoma” la quale finisce per avere un approccio simile a quello degli operai.
Il nuovo ceto medio utilizza i diversi tasti per il consumo alimentare. Era stato «il protagonista della conquista dell’abbondanza alimentare degli anni Sessanta con l’ascesa della carne rossa a principale fonte proteica», poi protagonista nelle trasformazioni alimentari all’insegna della praticità (dai supermarket al forno a microonde). Oggi sceglie un mix per il suo approvvigionamento alimentare: va al discount (soprattutto per i detersivi) e al supermercato; va dal contadino e nei piccoli negozi alla ricerca di qualità e autenticità dei prodotti. Manifesta un consumo più consapevole del passato. Questo nuovo ceto medio non rinuncia, dunque, a un ruolo da primo attore. Giuseppe De Rita ha scritto di un rinnovato protagonismo di questa fascia sociale, di una «dinamica di massa», vede qui anche la genesi di una nuova classe imprenditoriale, un nuovo processo di “cetomedizzazione”, neologismo coniato dal fondatore del Censis. «In altre parole — pensa De Rita — il ceto medio italiano è vivo e “lotta insieme a noi”, partecipando alla faticosa uscita dalla crisi».
Repubblica – 23 luglio 2015