«Quello che stiamo vedendo oggi è frutto delle scellerate scelte fatte nel passato». Cosi sentenzia il dottor Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo).
Dal 2018 la federazione che lei presiede denuncia la situazione dei medici che sarebbero andati in pensione e dei relativi vuoti nell’assistenza. Chi si sarebbe dovuto muovere?
«La programmazione è compito delle Regioni. Le Regioni comunicano ogni anno al ministero della Salute il fabbisogno dei professionisti, frutto di un’istruttoria che gli enti locali devono svolgere per verificare quante persone sono presenti e quanti medici andranno in pensione».
E’ un calcolo complesso?
«Deve tenere conto dei pensionamenti e del numero di medici in formazione specialistica. Poiché il corso di formazione specifica è triennale, bisognerà considerare il triennio. E in aggiunta almeno altri due anni prima che le graduatorie regionali siano realmente efficaci per consentire l’inserimento e la distribuzione degli incarichi. Se la programmazione non è precisa, poi ovviamente succede quello che tutti quanti stiamo verificando».
Per esempio?
«Ne faccio soltanto uno. La Lombardia fino a qualche anno fa dichiarava un fabbisogno di medici di medicina generale sostanzialmente simile a quello della Puglia, avendo invece il doppio della popolazione. È sicuro che in questo sistema qualcosa non abbia funzionato».
Le misure che sta prendendo il governo con l’investimento del Pnrr nella medicina generale e con l’istituzione delle Case di comunità saranno utili?
«Le Case di comunità rappresentano oggi soltanto degli involucri, delle strutture murarie. Resta inalterato il fabbisogno dei professionisti che dovrebbe attestarsi in 1 medico ogni 1.000/1.300 assistiti. L’attuale programmazione era stata fatta sul rapporto ottimale di 1 medico ogni 1.000 cittadini, ma il rapporto è cambiato con lo spostarsi della curva pensionistica».
Oggi a che livello siamo?
«Abbiamo un rapporto attorno a 1 medico ogni 1.250 assistiti, con alcune Regioni che lo hanno portato fino a 1.500. Gli interventi del governo hanno oggettivamente svuotato quell’imbuto formativo che è stato da noi evidenziato, quindi quest’anno il numero dei medici professionisti disponibili a partecipare alle prossime turnazioni e che hanno effettuato il concorso è quasi pari al numero di borse messe a concorso. Anche in questa fase, oltre alle 17.500 borse, sono state rese disponibili circa 4.000 borse per la medicina generate che hanno esaurito l’imbuto e quindi la disponibilità dei medici a partecipare».
È possibile che dando così tante borse di specializzazione fra qualche anno si crei il processo inverso, ovvero che il numero dei medici diventi addirittura eccessivo?
«Si, il rischio c’è. Per questo noi chiediamo che sia svolta una migliore programmazione. Abbiamo due strade: la prima è quella della specialistica su cui bisognerebbe fare standardizzazioni sul numero di professionisti in ragione dei posti letto, degli ospedali, dei servizi attivi e di quelli che si vogliono attivare. In medicina generale bisogna definire il rapporto ottimale tra numero di pazienti e medici. Poi è necessario definire come pater consentire più agevolmente ai diplomati e ai medici di medicina generale di entrare realisticamente nel mondo del lavoro, snellendo la burocrazia e le lunghe attese».
Perché negli anni scorsi sono state stanziate così poche borse rispetto a quelle per specializzare gli altri medici?
«Direi che questa scelta è frutto di una cultura che ha considerato la salute unicamente un costo e questa cultura ha determinato tagli pesanti sulle professioni. L’oggi è frutto di quelle scelte sciagurate fatte nel passato che hanno portato a un blocco, per esempio, delle assunzioni negli ospedali o a un fondo previsto per l’assunzione del personale fermo al 2004. Questo è ancora vigente anche se è stato leggermente modificato».
E sulla medicina generale?
«Qui più si risparmiava in termini di personale, più le Regioni facevano quadrare i loro bilanci. Le Regioni non hanno mai finanziato i fondi per poter assumere il personale amministrativo e il personale di studio, lasciando praticamente in percentuali risibili i fondi che avrebbero consentito l’assunzione di questo tipo di personale, che sarebbe stato indispensabile nella gestione della pandemia. I medici si sono trovati da soli a svolgere mansioni che avrebbero richiesto le competenze di altre professioni, nel bel mezzo di una emergenza di masse e perfino in una situazione di carenza. Hanna svolto un carico di lavoro immenso durante questi due anni. Ma per loro il tempo in cui venivano acclamati come eroi sembra già appartenere al passato».
La Verità