I primi a sperimentare il nuovo taglio delle pensioni l’anno prossimo saranno 31.500 dipendenti pubblici: 27.100 lavoratori degli enti locali, camere di commercio, infermieri, poi 3.800 medici, 400 insegnanti delle scuole primarie e dell’infanzia, 200 ufficiali giudiziari. Perderanno quasi 18 milioni lordi, 562 euro in media a testa. Così dice la relazione tecnica alla seconda manovra del governo Meloni. In totale, nel 2043, saranno in 732.300 a rinunciare a 3,5 miliardi lordi della loro pensione (2,3 miliardi netti), maturata con vecchie regole oggi riscritte.
Il taglio medio, ragionieristico, non fotografa però l’impatto sulle singole storie previdenziali. Alcune simulazioni della Cgil per Repubblica spiegano che in alcuni casi la perdita può essere meno pesante. In altri molto rilevante. In ogni caso si corre lungo il pericoloso crinale dell’incostituzionalità. La stessa Elsa Fornero oggi dice che nel 2011 rinunciò a intervenire: «Fu una scelta benprecisa: si volle evitare un intervento retroattivo sulle aliquote applicate ai contributi versati tra 1981 e 1995 che avrebbe colpito di fatto dei diritti acquisiti, esponendosi a rischi di costituzionalità».
Quelle aliquote, inserite in una tabella del 1965, rappresentano i rendimenti pensionistici applicati solo a quattro specifiche casse previdenziali pubbliche, oggi confluite in Inps, dopo il passaggio in Inpdap, Cdpel (enti locali), Cps (sanità), Cpi (insegnanti), Cpug (ufficiali giudiziari). Ebbene queste aliquote danno un peso diverso agli anni lavorati in quel periodo retributivo, di maggior favore non solo rispetto ai dipendenti privati, ma anche verso altri pubblici.
Ogni anno lavorato dai privati vale il 2% di retribuzione “pensionabile” entro un tetto di 40 anni di contributi: al massimo cioè la pensione retributiva può essere l’80% (due moltiplicato quaranta) dello stipendio. Lavorare trent’anni “retributivi” significa andare in pensione col 60% dello stipendio. Per gli statali anche meglio, perché la percentuale è al 2,5%. Ma per le quattro categorie l’aliquota di rendimento è addirittura stellare nei primi anni.
Ad esempio, aver lavorato un anno o anche pochi mesi tra 1981 e 1995 ha un rendimento del 24%: come 12 anni del privato. Due anni pesano per il 12% ciascuno. E così via a scalare. Maggiore è l’anzianità, minore è l’aliquota. Fino a stabilizzarsi a 2,5% con 15 anni di anzianità. Il governo Meloni ora interviene, sostituendo la tabella del 1965 con un’altra che parte da zero e cresce del 2,5% all’anno.
La tabella entra in vigore nel 2024. E ha già scatenato un putiferio, soprattutto tra i sanitari. Chi ha pochi anni lavorati in quel periodo, magari solo il servizio militare da riscattare, avrà maggiori tagli sulla pensione. Nell’esempio Cgil la funzionaria di cancelleria che ha solo quattro anni lavorati prima del 1994 (poi dal 1995 l’aliquota passò per tutti al 2%) perde più di altri: oltre 60 mila euro lordi a vita media (dai 67 anni della pensione agli 85). Anche il medico rinuncia a 2 mila euro lordi all’anno, l’infermiera a mille euro, il dipendente comunale a 500 euro.
«La modifica delle aliquote di rendimento per i dipendenti pubblici è sbagliata e ha per noi dei profili di incostituzionalità », dice Lara Ghiglione, segretaria confederale Cgil. «Nonostante i tanti slogan e le promesse elettorali, questo governo sulle pensioni è addirittura riuscito a fare peggio della legge Monti-Fornero».