Roberto Giovannini. Dagli anni 60 – e per trent’anni – i nostri agricoltori del bacino del Po e del Veneto l’hanno usata in quantità: spargendo per ogni ettaro di terreno coltivato 2-3 chili di atrazina, un diserbante ideato negli Usa nel 1958, si ottenevano ottimi risultati e splendidi raccolti di mais. Peccato che l’atrazina sia stata definitivamente vietata dal 1992 (negli Usa e in Australia no, invece), perché dannosa per l’equilibrio endocrino e fortemente persistente nelle falde acquifere.
Peccato che a così tanti anni di distanza l’atrazina risulti ancora presente e in concentrazioni elevate (e non tranquillizzanti) nelle falde acquifere della pianura Padana. E peccato che l’atrazina sia stata sostituita da un nuovo diserbante, la terbutilazina: una sostanza della stessa famiglia, con caratteristiche chimiche molto simili, revocata dalle autorità europee nel 2010 e reintrodotta l’anno dopo, che viene sparsa allegramente sui campi e finisce poi nei pozzi dell’acqua bevuta da milioni di italiani in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto.
Una situazione allarmante che emerge da uno studio sulla «sostenibilità ambientale dell’uso dei pesticidi nella Valle del Po». L’indagine, messa a punto da un team dell’Ispra (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) guidato da Pietro Paris, responsabile del settore «sostanze pericolose», verrà presentata a Roma il 26 ottobre, nella settima edizione del Convegno Internazionale per le Statistiche in Agricoltura (Icas). L’indagine ha preso in esame 12 anni di rilevazioni della presenza dell’atrazina nelle acque superficiali (fiumi e laghi) e in quelle sotterranee, che alimentano gli acquedotti per milioni di persone. Ebbene, nelle acque di superficie la concentrazione del diserbante bandito si è ridotta in modo significativo: il Po e gli altri fiumi rinnovano la loro acqua velocemente. Nei pozzi, invece, le concentrazioni sono circa quattro volte più alte. E restano stabili.
L’atrazina – spiegano gli scienziati – è un interferente endocrino, cioè altera la funzionalità del sistema endocrino, causando molti effetti negativi per la salute di uomini e animali e delle loro progenie, anche a basse concentrazioni. Oggi è bandita in Europa; ma è stata sostituita dalla terbutilazina, che in questo momento è uno degli erbicidi selettivi più venduti in Italia. Le caratteristiche sono molto simili, persistenza nelle acque profonde compresa. Nel 2010 l’Efsa (l’Autorità europea per l’alimentazione e la salute) ha revocato l’uso della terbutilazina; l’anno dopo ha «rivalutato», decidendo di autorizzarne l’uso. Gli ambientalisti sono decisamente contrari, anche perché questa sostanza è stata recentemente classificata dall’agenzia Ue per le sostanze chimiche (Echa) «pericolosa per l’uomo e per l’ambiente». «Ciò che immettiamo nell’ambiente prima o poi l’ambiente ce lo restituisce – afferma Daniela Sciarra, responsabile per l’agroalimentare di Legambiente – Il ricorso a pesticidi e diserbanti è eccessivo». Confermano all’Ispra: nel 2014 la terbutilazina era presente in 397 punti di rilevazione delle acque superficiali (il 39,1% del totale) e in 122 delle acque sotterranee (il 5,9% del totale). Una situazione che da anni viene segnalata ai ministeri della Salute e dell’Ambiente. Ma senza riuscire ad andare al di là di provvedimenti molto marginali e del tutto inefficaci.
(ha collaborato Cristina Bellon)
La Stampa – 14 settembre 2016