Da Como a Milano, sempre più avvistamenti. Troppi rifiuti gestiti male, così debellarli è un’illusione
Pare che a Como in piazza Cavour, il cosiddetto «salotto del capoluogo lariano», ultimamente si veda di più circolare certi soggetti un po’ speciali intenti a fare spuntini in compagnia o semplicemente a guardarsi intorno perché non si sa mai, un’occasione buona potrebbe sempre capitare. Si tratta di esseri sociali e intelligenti: i ratti (Rattus norvegicus), detti anche pantegane o surmolotti. Mai da confondere, comunque, con i graziosi e casalinghi topolini e sorcetti (Mus musculus). Questi infatti son piccoli (una quarantina di grammi) e stanno, o meglio stavano, nascosti nelle cucine e nelle dispense dove con le loro ruberie facevano impazzire le nostre nonne. Ormai non ce ne sono quasi più: nei moderni appartamenti, nei condomini, non è vita per loro. Lo stesso però non si può dire per i ben più massicci, aggressivi e prepotenti ratti (raggiungono i tre o quattro etti, talora si scoprono esemplari intorno al mezzo chilo). Sono questi dunque quelli che, secondo le recenti cronache lariane, «escono dai tombini e passeggiano tra le aiuole», ma che sono stati avvistati a più riprese anche nei parchi di Milano. Sì insomma, ci siamo capiti, qui si parla dei ratti di fogna, personaggi che, sempre in senso negativo, sono stati protagonisti di tanti capolavori letterari. Vedi «Cent’anni di solitudine» di Màrquez o «La peste» di Camus. Simboli di angoscia, di disgusto e soprattutto di degrado. Non certo una bella compagnia, dunque, da incontrare nei giardini sotto casa.
Attenzione però, detto tutto ciò non mi rimangio affatto la descrizione che ne ho dato, e cioè che si tratta di soggetti sociali e intelligenti. Perché lo sono certamente, e sono anche dotati di una certa cultura e di una primitiva capacità di trasmissione delle informazioni. Inoltre sono straordinariamente opportunisti. Sono dunque una forza della natura e le loro armi principali stanno appunto nella socialità, nell’intelligenza, nell’adattabilità e nella prolificità.
Partiamo dalla socialità. Se un individuo scopre la soluzione di un problema, ecco che rapidamente tale soluzione passa, per via d’una speciale forma d’apprendimento detta sociale, a tutta la popolazione. È appunto ciò che si chiama trasmissione culturale delle informazioni. È così che i ratti sanno cambiare rapidamente il loro modo di stare al mondo ed è perciò che, seguendo l’uomo, nel tempo hanno colonizzato ogni ambiente, diventando cosmopoliti. Sono infatti estremamente plastici e quindi adattabili, mangiano di tutto e sopportano ogni temperatura, dai poli all’equatore. Possono poi predare le specie più diverse. Mi è capitato a Venezia di vederli cacciare, con successo, i colombi. Sono inoltre collaborativi e, infine, fanno una gran quantità di figli. È insomma una specie provvista delle armi adatte per essere ecologicamente vincente.
È perciò che si può comprendere come sia un’illusione pensare di debellarli solo attraverso campagne di derattizzazione. I ratti infatti trovano sempre il modo di venirne fuori, e non solo geneticamente più attrezzati (la selezione naturale), ma anche perché, grazie al loro «passarsi parola» (la trasmissione culturale) sanno presto riconoscere le nuove minacce.
In realtà la derattizzazione può un po’ funzionare solo se accompagnata da una saggia gestione dei rifiuti urbani, in particolare quelli alimentari. C’è infatti una regola ecologica che non sbaglia mai: tante risorse alimentari, tanti ratti. Non si potrebbe mai affermare, in realtà, che in una città ci sono troppi ratti, ma più realisticamente che ci sono esattamente quei ratti che la città è in grado di mantenere.
Danilo Mainardi – Corriere della Sera – 8 ottobre 2012