Alessandro Vespignani. Quando nell’estate del 2014 abbiamo cominciato ad analizzare con il mio gruppo di ricerca l’epidemia di Ebola ci siamo ben presto trovati nel mezzo di una crisi di proporzioni disastrose. In Africa Occidentale la situazione sembrava fuori controllo con un numero di casi e decessi in crescita esponenziale. A peggiorare il clima internazionale era poi stata la minaccia di una globalizzazione dell’epidemia, evidenziata dai primi casi negli Stati Uniti ed in altri Paesi europei ed africani.
Team multidisciplinare
Rapidamente, nell’ambito delle attività del centro di eccellenza del «National Institute of Health» degli Stati Uniti per l’inferenza e la dinamica delle malattie infettive abbiamo assemblato una squadra di ricercatori provenienti da tre università americane (Fred Hutchinson di Seattle, Università della Florida, Northeastern University a Boston) e due centri di ricerca italiani (Fondazione Bruno Kessler di Trento e Fondazione Interscambio Scientifico di Torino). Ma, invece di fare le valige e partire per le zone afflitte dall’epidemia, ci siamo allacciati a dei supercomputer e per mesi siamo rimasti, come si dice in gergo, a «macinare numeri».
Il nostro lavoro di ricerca è infatti nell’ambito di quella che è stata definita recentemente «epidemiologia computazionale». In altre parole, quello che facciamo è di ricreare all’interno del computer un rappresentazione algoritmica della società il più fedele possibile alla realtà. Si parla di modelli che tracciano il singolo individuo, ricostruiscono le strutture sociali fino al livello dei singoli nuclei familiari; assimilando grande masse di dati socioeconomici, sanitari, di mobilità e geografia. In questo mondo sintetico si inserisce anche la descrizione più accurata possibile dei meccanismi di trasmissione della malattia e in questo modo cerchiamo di prevedere il dove, il quando e il quanto – l’intensità dell’epidemia – attraverso delle enormi simulazioni al computer. L’analogia con la meteorologia è la più ovvia. I dettagliati modelli atmosferici cercano di prevedere la traiettoria dei cicloni tropicali. I nostri modelli cercano di prevedere la traiettoria dell’epidemia e la sua diffusione geografica.
Ovviamente il nostro lavoro non si sostituisce al personale medico, agli operatori sanitari e ai tanti volontari. Sono loro i veri eroi di ogni epidemia che, spesso al rischio della loro vita, combattono in prima linea negli ospedali e a contatto con i malati. Il nostro lavoro cerca però di fornire l’«intelligence» che può aiutare chi è sul campo, anticipando le mosse del nemico e indicando le strategie migliori per combatterlo. Nel caso di Ebola, quindi, abbiamo tracciato scenari per valutare l’efficacia di interventi come la costruzione delle unità di trattamento per malati di Ebola, le squadre per la sepoltura in sicurezza dei deceduti e, infine, l’uso del vaccino che è stato sperimentato con successo durante le fasi finali dell’epidemia. Un lavoro fatto a contatto con le agenzie nazionali ed internazionali che si occupano di salute pubblica e che hanno il compito di implementare sul campo quelle che sembrano le politiche più efficaci.
Non è difficile immaginare quanto l’epidemiologia computazionale sia, in realtà, un campo altamente interdisciplinare. Necessita la fusione di molti «saperi», dalla biostatistica e l’epidemiologia alla matematica e l’informatica, passando per la fisica e la demografia. Una vera interdisciplinarità che vive oltre i confini di una singola disciplina o di un singolo Paese e, anzi, trova la sua forza proprio nella dimensione internazionale della ricerca. Contro le epidemie, ma più in generale per affrontare le difficili sfide di questo secolo, dovremmo sempre poter essere in grado di assemblare le squadre che riassumono le più forti eccellenze scientifiche, ovunque esse siano.
Quante volte ci siamo divertiti alla fine dei campionati del mondo di calcio a pensare alla super-nazionale che riunisca i giocatori migliori. E siamo anche consapevoli che non basta scegliere i migliori giocatori per essere veramente competitivi. Dobbiamo anche dare loro la possibilità di conoscersi e allenarsi insieme. Queste considerazioni, così intuitive, non trovano vita facile nel mondo della ricerca. I confini nazionali e i silos disciplinari sono ancora forti. Le barriere di tipo amministrativo, finanziario sono tante e i meccanismi di cooperazione internazionale ancora esigui.
La dimensione globale
In questi giorni il nostro lavoro su Ebola ha ricevuto il premio Aspen Italia 2016 per la collaborazione scientifica Italia-Usa. C’è ancora molto lavoro da fare per creare una cultura che favorisca la dimensione globale della ricerca, la libera circolazione delle idee e degli scienziati e siamo onorati di ricevere un premio che si pone come un esempio di grande importanza e stimolo per la comunità nel superare i confini transatlantici. Tutta la mia squadra vuole sicuramente giocare con una maglia che ha solo i colori della scienza.
La Stampa – 2 novembre 2016