Dopodomani scattano i rincari dal 20 al 26% sui proventi finanziari degli italiani. Si può chiamarla la mini-patrimoniale del governo Renzi, che ha dichiarato da subito di voler riequilibrare la tassazione, sgravando il lavoro e trattando le rendite come i maggiori paesi europei. Almeno Renzi ha il pregio di non nascondersi: per tre anni i tre governi precedenti mai pronunciando la parola tabù “patrimoniale” – hanno rincarato bolli e tasse su chi investe. Nel 2011 Berlusconi moltiplicò il costo dei bolli sui conti correnti, nel gennaio 2012 il governo Monti alzò le aliquote dal 12,5 al 20% sul risparmio, cinque mesi fa il governo Letta aumentò ancora i bolli, dallo 0,15 allo 0,20%. Sommando tutto, alla patrimoniale ci siamo; solo è fatta “all’italiana”, alla chetichella, senza parere.
Il rincaro si abbatterà sui conti di deposito e praticamente tutti gli investimenti italiani, eccetto i titoli di Stato così ampliando il vantaggio fiscale per emissioni del Tesoro, postali e polizze, che restano al 12,5%. Oltre a questo effetto distorsivo della concorrenza, la misura presenta notevoli complessità tecniche. I risparmiatori devono farsi bene i calcoli, e scegliere fra tre opzioni distinte: e se non faranno nulla potrebbero pagare l’aliquota maggiorata, con effetto retroattivo, anche sulle vecchie plusvalenze latenti.
Le altre due alternative sono invece l’affrancamento (una vendita e riacquisto sintetica in capo agli intermediari, che riguarda l’intero portafoglio), e la vendita effettiva dei titoli, su cui pagare il 20% fino a domani per ricomprarli da martedì al regime del 26%. Stando ai primi sondaggi con gli operatori, l’immobilismo dei risparmiatori sembra finora il comportamento più diffuso, anche favorito dal quasi totale silenzio del governo e dei gestori (specie le banche) sul dossier.
IL QUIZ DEL SOLE 24 ORE
Da martedì la stangata sulle rendite finanziarie. Quanto ne sai?
Da martedì 1° luglio scatta l’aumento dal 20% al 26% dell’aliquota sui proventi di natura finanziaria. La conversione in legge del decreto Irpef ha infatti messo il sigillo finale alla “stangatina” sul risparmio. Ma cosa cambia in concreto per il piccolo risparmiatore? Scopriamolo in questo quiz.
L’ANALISI
Se non lo hanno già fatto, milioni di risparmiatori dovrebbero passare il fine settimana a studiare con i loro consulenti, per decidere se mantenere dormienti le loro plusvalenze e minusvalenze (tassando i futuri profitti al 26%), o far emergere i guadagni con l’affrancamento dell’intero portafoglio, o in via diretta con singole vendite. La normativa è così complessa da mettere alla prova perfino i gestori e tributaristi. L’impatto previsto è su circa un decimo dei risparmi italiani, che superano i 3mila miliardi di euro. Dato l’andamento complessivamente negativo dei mercati negli ultimi cinque anni – è il limite entro cui la legge permette di usare le minusvalenze a scomputo dei proventi finanziari – i portafogli più diffusi dovrebbero abbondare di perdite latenti. E in quel caso, la migliore scelta dovrebbe essere portarle al futuro (per compensare i profitti) oppure vendere e ricomprare. Zero calcoli invece sui fondi comuni, per cui il rincaro scatta armonico e automatico: ma da tempo Assogestioni reclama un riordino del fisco sul risparmio, pieno di stratificazioni e asimmetrie.
Solo padroneggiando diversi fattori si può ottimizzare il dossier: entità di plusvalenze e minusvalenze in portafoglio, analisi di scenario sui mercati, costi di transazione per i singoli titoli, costo del capitale disinvestito per pagare la tassa, eventuali minusvalenze post-affrancamento del portafoglio. Money-Farm, società di consulenza online, ha incrociato i fattori trovando tre costanti: 1) L’affrancamento conviene se i costi di transazione nella compravendita dei titoli in plusvalenza superano il 6% delle minusvalenze latenti. 2) Se nel portafogli prevalgono i Btp, è meglio affrancare solo se le minusvalenze moltiplicate per 3,25% (26% x 12,5%) superano i costi di transazione. 3) Conviene sfruttare eventuali grosse minusvalenze accantonate nel 2010, vendendo singole posizioni in profitto. Dalle tre costanti derivano due consigli. Uno è che l’affrancamento vale la spesa solo se ci so- no plusvalenze superiori al 10%, ma poche perdite in portafoglio; l’altro che conviene portare al futuro le minusvalenze di rilievo, quindi vendere e ricomprare singole posizioni in profitto di azioni o bond (perché presto tali minusvalenze peseranno di più, con tassa al 26%). Se invece le minusvalenze sono già affiorate, conviene realizzare i profitti – con l’affrancamento o la vendita diretta – e pagare l’aliquota del 20% fino a martedì.
Si poteva scrivere una norma più semplice e armonica? «Assolutamente sì – dice Giovanni Daprà, ad di MoneyFarm -. Tanta complessità rischia di rendere inermi i risparmiatori: temo che gran parte di loro non comprenderà le comunicazioni obbligatorie in arrivo dalle banche, e alla fine non farà nulla subendo gli eventi». A latere, c’è poi l’ulteriore ampliamento del vantaggio fiscale tra il debito pubblico e altri titoli. «In un paese in cui gli investimenti stranieri calano e le banche sono padrone del credito, e faticano, andrebbe incoraggiato l’accesso dei capitali alle imprese – dice Alberto Foà, presidente di Acomea Sgr -. Inoltre un’aliquota così agevolata non stimola nemmeno il collocamento di Btp, perché l’investitore al margine non è il privato ma banche, assicurazioni e istituzionali. E si favorisce anche il collocamento del debito pubblico straniero, a scapito dei bond di società italiane. Tutto in un paese in cui l’investimento azionario è bassissimo ».
Repubblica e Il Sole 24 Ore – 29 giugno 2014