Il Sole 24 Ore, Paolo Bricco. «Il mio bisnonno Camillo era capocantiere nel tunnel del Gottardo. Era divertente ed estroso. Per fare arrabbiare sua moglie Enrichetta usciva da casa e passeggiava per il centro di Bergamo in ciabatte da camera. Mio nonno Giuseppe aveva una mente matematica e fondò una ditta per la lavorazione e la posa dei marmi. Sul letto di morte, le ultime parole a mio padre Enrico e agli altri due figli Camillo ed Emilio furono “mi raccomando, state attenti al fido del Mediocredito Bergamasco”. Mio papà, da imprenditore, aveva due ossessioni: pagare gli stipendi dei cinquanta operai dell’azienda di famiglia e pagare le tasse. Il paradosso della vita è che io ho scelto di fare il medico e il ricercatore per sfuggire a quella sorte. Non volevo avere a che fare con quel tipo di responsabilità e di stress. Ora, ho moltiplicato il problema per dodici: perché qui, al Mario Negri, abbiamo in tutto seicento dipendenti».
Giuseppe Remuzzi, classe 1949, è il direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. Siamo nella foresteria interna al Kilometro Rosso, il polo scientifico e industriale che sorge a Stezzano, a poche centinaia di metri dal casello di Dalmine dell’autostrada A4, sull’arteria dell’Italia tecnoindustriale fatta di asfalto e di competenze che unisce Milano a Bergamo e, poi, a Brescia e a Verona, fino a Venezia: «Amo molto il Kilometro Rosso. Siamo qui da una decina d’anni. Ci troviamo a otto minuti di macchina dall’ospedale di Bergamo. Prima eravamo in Via Gavazzeni. Questa struttura funziona molto bene e inserisce il Mario Negri in un ambiente internazionale. Siamo tutti debitori verso le due persone che ci hanno più creduto: l’industriale della Brembo Alberto Bombassei e il banchiere Emilio Zanetti, presidente della Popolare di Bergamo».
Remuzzi è un uomo segnato dalla dimensione del doppio. È elementarmente bergamasco – nella storia famigliare e nel modo di porsi, nella religione del lavoro non sacrificante né penitenziale e nel tifo sportivo per l’Atalanta (anzi, la Dea) – e allo stesso tempo ha una personalità complessa e composita che gli ha permesso, in particolare nella nefrologia, di diventare uno dei medici ricercatori a maggiore caratura internazionale.
Ha la leadership in uno dei principali centri di ricerca europei della farmacologia, una disciplina – un comparto economico, un’idea di mondo – che è uno snodo della via occidentale alla modernità.
Dunque, soprattutto adesso con la pandemia e il post pandemia, con una alta centralità strategica e simbolica. Ma, allo stesso tempo, è timido e riservato, quasi costantemente impacciato.
È pieno di pudori nel parlare dei dolori personali che segnano la vita di tutti: è tenerissimo quando non vuole soffermarsi sulla sua prima consorte, mancata tanti anni fa per una malattia allora non curabile, per non adombrare in alcun modo l’attuale moglie, Nadia Ghisalberti, assessore alla cultura della giunta Gori a Bergamo, a cui è legatissimo e di cui parla come un adolescente con rispetto, stima, amore.
È molto orgoglioso dei tre figli, ma quasi incespica nelle parole, le smozzica, quando descrive le vite e i lavori di Wara (41 anni, psicologa), di Gabriel (38 anni, ingegnere informatico) e di Livio (32, attore teatrale).
Ma, nonostante le ritrosie, Remuzzi si è trovato esposto sul palcoscenico dei media di massa a sperimentare per primo la miscela esplosiva di televisione e scienza: nel 2001 Adriano Celentano in prima serata su Rai Uno, nella trasmissione “125 milioni di c…” si era espresso contro la legge sulla donazione degli organi, Remuzzi aveva pubblicato una lettera aperta indirizzata al cantante sul «Corriere della Sera» diretto da Ferruccio de Bortoli, Celentano lo aveva invitato in diretta nella puntata successiva, ne era nato un dialogo surreale e profondo in cui la pedagogia televisiva aveva ben funzionato per ridurre le paure e per diffondere la cultura della donazione fra i nove milioni di telespettatori.
Giuseppe si muove lentamente. Parla molto lentamente. Non si innervosisce quando, nel ristorante interno al Kilometro Rosso, non arriva nessuno per qualche minuto ad accoglierci nella sala da pranzo che ha prenotato.
Lui è un uomo di responsabilità e di potere, soprattutto adesso che la scienza, dopo il Covid, è diventata una forma di materializzazione dei nuovi equilibri fra cielo e terra, società ed economia, diritto e biopolitica.
Esercita questo potere e questa responsabilità senza il gusto apertamente apodittico o fintamente democratico che ha spesso chi ha il suo ruolo e la sua centralità: nel corso nel nostro pranzo, dirà per due volte «tante volte non mi sono sentito all’altezza: fin da piccolo ho pensato che gli altri fossero più intelligenti di me».
Come primo, prendiamo entrambi un piatto di spaghetti con burro, acciughe e pane grattugiato tostato.
Da bere, per tutte e due va bene un bicchiere di Chianti. Remuzzi è segnato da un classico dello sviluppo sociale e dell’antropologia italiana: il contatto diretto fra la dimensione locale e la dimensione internazionale, saltando la mediazione del piano nazionale che, nelle storie individuali degli italiani, è sovente un vincolo sterilizzante più che una placenta arricchente.
Racconta: «Dopo la maturità classica al collegio vescovile Opera Sant’Alessandro di Bergamo e gli anni di medicina all’università di Pavia, riuscii a entrare negli ospedali riuniti di Bergamo, come medico di corsia a nefrologia. C’era una necessità non astratta, ma molto concreta, di ricerca: i dializzati sanguinavano e i bambini soffrivano della sindrome emolitico-uremica. Ci dedicammo a capire perché e pubblicammo le due ricerche sul British Medical Journal e su Lancet. Per questa ragione mi trovai inserito in una dimensione internazionale. Io e il mio gruppo iniziammo a lavorare con John Gordon di Cambridge e con Stewart Cameron del Guy’s Hospital. Mi colpì la differenza negli ambienti e nei comportamenti. In Italia un giorno un barone della nefrologia, che era anche una bravissima persona, mi spiegò con ironia affettuosa che io non avrei mai fatto carriera perché non andavo alle cene. La prima volta che arrivammo a Londra, Stewart Cameron, che era un luminare di grande autorevolezza e prestigio, ci aspettò in piedi fino alle tre di notte per poterci salutare e per darci le chiavi dell’appartamento dove eravamo sistemati».
In Italia capita anche questo. Remuzzi è un esempio della assenza (fortunata) del centro (cioè il Paese) e della esistenza (altrettanto fortunata) della connessione fra il profilo locale e quello internazionale: «Potemmo incrementare il nostro network, da Bergamo, grazie alla donazione di un nostro paziente, un avvocato benestante che avevamo curato e che per gratitudine ci diede una somma sufficiente perché il nostro gruppo di medici e ricercatori, in tutto 25 persone, potesse andare all’estero, non solo a Londra e a Cambridge, ma anche a New York, a Parigi e a Strasburgo».
L’internazionalizzazione del team coincide con l’internazionalizzazione del profilo individuale. Tanto che Remuzzi ha firmato (o co-firmato) cento pubblicazioni su «Lancet» e 33 sul «New England Journal of Medicine». In questo percorso tutto incentrato sulla duplicità di Bergamo e del mondo, è stato l’unico italiano membro delle redazioni di entrambe e nel 2013 – nonostante la non frequentazione delle cene dei nefrologi – è stato nominato presidente della International Society of Nephrology.
Come secondo, prendiamo entrambi dei cubetti di formaggio fatti scaldare fino a un istante prima che si sciolgano, avvolti in foglie di insalata verde.
La pandemia è stato un passaggio violento che ha cambiato i rapporti fra scienza e politica. Dice Remuzzi: «La scienza è politica. La medicina è politica. Ma gli scienziati non debbono mai legarsi a un partito politico. Gli scienziati debbono però potere esprimere posizioni pubbliche. Io, per esempio, sono a favore della sanità pubblica e sono sfavorevole al modello americano dove riceve cure di qualità soltanto chi è un benestante con una ottima copertura assicurativa. A Pavia, fin dal primo anno di università, andavo tutti i giorni in corsia. Il mio primo amico e maestro si chiamava Bruno Minetti. Aveva sei anni più di me. Era comunista. Io non ero iscritto al Pci e non aderivo a specifici gruppi, ma pensavo che attraverso la sanità pubblica si potesse cambiare la società. Soprattutto adesso che la pandemia ha confuso i piani, ha creato bolle mediatiche, ha evidenziato la crisi di leadership delle classi dirigenti occidentali e ha fatto emergere il rischio umano del narcisismo dello scienziato medio, va ricordato che gli ambiti della scienza e della politica debbono essere distinti. È sbagliato attribuire alla prima una primazia sulla seconda. La scienza e la ricerca procedono per approssimazioni successive. È corretto il principio di falsificabilità della scienza enunciato da Karl Popper: la scienza è vera finché non emerge un elemento che la contraddice e consente di approdare a un allargamento della conoscenza. La scienza è un sistema aperto. Ma, proprio per questo, è bene che la scienza non sovrasti la politica. Gli scienziati devono spiegare ai politici lo stato delle cose, che è per definizione uno stato delle cose relativo e non assoluto. Ai politici spettano le decisioni».
Al caffè, mi viene in mente il passaggio del giuramento di Ippocrate: «sceglierò la cura per il bene del malato secondo le mie forze e il mio giudizio e cercherò di conservare onorevole e pura la mia vita e la mia arte».
E, infatti, mentre ci salutiamo, Giuseppe Remuzzi – bisnipote di Camillo, capocantiere del tunnel del Gottardo – mi dice: «Alla fine, io mi sento un medico di corsia».