LA STAMPA. I titoli che spuntano qua e là dicono molto: boschi urbani, formazione turistica esperienziale, corsi jazz, stoccaggio vini, bonus rubinetti. E poi aumenti retributivi senza criterio, salvaguardie, anticipi per eventi lontani. Il maxiemendamento alla legge di Bilancio del 2021 votato dall’aula di Montecitorio il 23 dicembre conta circa 1.150 commi. Dopo aver impegnato cento miliardi di euro quest’anno e 35 nel prossimo, il passaggio parlamentare è costato 254 modifiche ed ha aumentato la spesa di 5 miliardi, sei volte ciò che accade in tempi normali.
Scorrendo il testo si ha l’impressione che l’emergenza Covid sia stata un enorme alibi per spese inutili. Lo ammette persino il ministro Roberto Gualtieri: «Alcuni emendamenti io non li avrei approvati, sono troppo settoriali e specifici». Stefano Fassina, instancabile relatore di maggioranza, dice che c’è stata «una proficua triangolazione istituzionale tra maggioranza, opposizione e governo». Novità importanti non mancano, dai fondi per pagare i contributi previdenziali delle partite Iva in difficoltà alle risorse per la campagna di vaccinazione anti-Covid. Eppure. Ci sono soldi per festeggiare gli ottocento anni del primo presepe, il Giubileo del 2025, gli europei di nuoto del 2022: a Roma ancora si discute delle piscine abbandonate dopo i mondiali del 2009. Taranto ha ottenuto un milione e mezzo l’anno per i Giochi del Mediterraneo del 2026, le Olimpiadi invernali Milano-Cortina (sempre del 2026) 145 milioni. Quasi tutte le spese sono state approvate all’unanimità. La triangolazione, per l’appunto. L’emergenza ha ingigantito un antico problema italiano: molte spese e poco criterio in un momento in cui le file per il pane consiglierebbero ben altro approccio. La norma per introdurre l’assegno unico ai figli, invocata dal Pd per razionalizzare i contributi distribuiti da troppi enti, è stata finanziata per tre miliardi, la metà del necessario. Gli altri tre se ne sono andati in micronorme.
Martedì scorso la Ragioneria dello Stato ha bloccato ottanta proposte. Ma il paradosso vuole che l’emergenza abbia giustificato l’aumento delle spese anche per chi normalmente si preoccupa della montagna di debito pubblico degli italiani. Questa settimana sono spuntate assunzioni e aumenti di stipendi ai ministeri dell’Interno, Esteri, Difesa, Giustizia, Inps, Agenzia italiana per il farmaco, financo alla Ragioneria. Ci sono aumenti per lavoratori portuali, sanità militare, servizio sanitario della Guardia di finanza. Si diceva del criterio. Prendiamo l’emendamento Villani a favore dei direttori dei servizi amministrativi delle scuole: per tenere a bada la spesa, era prevista una soglia di sbarramento degli idonei al 50%. Un comunicato entusiasta dei Cinque Stelle segnala di aver avuto la meglio sulla Ragioneria.
Fin qui si parla di scuola, un settore nel quale si investe poco e la spesa è utilizzata quasi esclusivamente per pagare (soprattutto agli insegnanti) stipendi bassi. Ma era necessario finanziare l’esenzione Imu dei pensionati residenti all’estero, un bonus da mille euro per i rubinetti ecologici o il credito d’imposta per i macchinari dei ristoranti, se i ristoranti in questo momento non hanno altro che da pagare l’affitto, e per alcuni i ristori non bastano?
Grazie al piano di emergenza della Bce, il governo non deve preoccuparsi dei dubbi degli investitori sulla solvibilità di lungo termine dell’emittente Italia. O meglio, dovrà farlo ma non prima del 2023, quando il piano di Francoforte terminerà e quella fiducia dovremo conquistarcela giorno per giorno. Sta per arrivare la pentola da duecento miliardi del Recovery Fund, e allora occorrerà onorare l’impegno a usare quelle risorse per riformare la pubblica amministrazione.
Nel frattempo spenderemo 300 mila euro per finanziare borse su progetti di studenti under 25, 200 mila per un master in medicina clinica termale e la Scuola europea di industrial engineering. Oggi l’ok alla Camera, poi l’ultima parola spetta al Senato, che deve approvare la Finanziaria entro il 31 dicembre, pena l’esercizio provvisorio. Il tempo per spendere ancora non c’è più. —