di Federico Fubini. Quando questo governo pubblicò il suo primo programma economico nell’aprile di due anni fa, tutti capirono subito che era un atto di fiducia in se stesso e nelle risorse del Paese. Il debito pubblico era indicato in calo dal 132% del reddito nazionale (Pil) dell’anno prima al 125% nel 2017, grazie a una ripresa graduale dopo la Grande recessione e a una moderata attenzione ai conti dello Stato.
Del resto dalla Commissione Ue al Fondo monetario internazionale, gran parte degli osservatori dall’estero in quel momento la pensavano in modo simile sulla crescita che avrebbe potuto accelerare in Italia.
Da allora sono passati poco più di due anni, ma il debito pubblico sembra avviato a livelli di circa 150 miliardi di euro superiori a quanto servirebbe per realizzare le speranze del 2014. Quasi con certezza nel 2016 e potenzialmente anche nel 2017, il debito dello Stato potrebbe crescere rispetto alle dimensioni dell’economia, fino ad avvicinarsi al 135%. Quell’evento segnerebbe un decennio di sua crescita ininterrotta, come non accadeva dal crepuscolo della Prima Repubblica con i governi di Giulio Andreotti e Bettino Craxi.
È su questo sfondo che Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia lavorano alla legge di Stabilità più difficile da quando Matteo Renzi si è insediato. Il presidente del Consiglio per primo sa che una procedura del Fiscal compact sui conti dell’Italia non è affatto inevitabile, ma si presenta sempre più come una reale possibilità. Se ci si dovesse arrivare, si osserva, la speranza è che succeda dopo il referendum costituzionale che Renzi — in questo momento — pensa di tenere verso fine novembre.
Non sarà un percorso facile. Per rispettare gli impegni scritti presi con la Commissione Ue tre mesi fa, al governo per ora potrebbero mancare fra 13 e 15 miliardi di euro e nel frattempo la ripresa italiana si sta dimostrando ancora una volta una delusione. L’obiettivo concordato con Bruxelles sarebbe un calo del deficit all’1,8% del Pil l’anno prossimo. Certo, i giochi non sono ancora fatti e la situazione resta fluida: la legge di Stabilità verrà varata solo a metà ottobre, e gli ultimi tre governi in Italia hanno dimostrato un controllo sui saldi — prima di pagare gli interessi sul debito — pari a quello della Germania. Ma se si confermassero gli equilibri finanziari e le politiche attuali, l’anno prossimo il deficit potrebbe salire per la prima volta dal 2012 e arrivare al 2,6 o 2,7%.
Il paradosso apparente è che questi rischi si presentino ora che è in cantiere la legge di Stabilità più cauta da quando Renzi governa. Oltre al taglio al 24% all’aliquota dell’Imposta sul reddito delle società (Ires), già coperta in bilancio con tre miliardi, la manovra prevede quattro capitoli. Il primo riguarda l’assistenza, costa circa due miliardi e include un «bonus» per le pensioni più basse e le misure per l’Ape, l’anticipo pensionistico previsto grazie ad accordi con banche e assicurazioni; l’impegno di mezzo miliardo per le famiglie più povere per ora sembra rinviato al 2018 per mancanza di risorse.
Il secondo capitolo mira a rafforzare l’istruzione, con 300 o 400 milioni di incentivi per il diritto allo studio, i ricercatori e le istituzioni educative. Si lavora poi a un terzo pilastro del bilancio a sostegno della competitività d’impresa. Qui ricade un forte aumento delle soglie di reddito a cui si applicano gli sgravi fiscali sui premi di produttività (costo: 250 milioni) e la conferma del super ammortamento al 140%, ossia la deduzione fiscale maggiorata per le aziende che investono (costo: 800 milioni); si aggiungono poi 100 o 200 milioni di misure più piccole, come certe spalmature fiscali delle perdite d’impresa. Servirà poi almeno un altro miliardo e mezzo per impegni già presi: il bonus da 80 euro alle forze di polizia, certi trasferimento sociali, le missioni delle forze italiane all’estero, gli aumenti per gli statali.
In totale queste misure previste nella prossima legge di Stabilità aumentano il deficit di poco meno di 5,5 miliardi. Nel frattempo si lavora ad azioni che riducano il disavanzo per sei o sette miliardi di euro: tre da un’ulteriore revisione della spesa pubblica, uno dalla razionalizzazione dell’Ace (gli incentivi fiscali al rafforzamento patrimoniale d’impresa lanciati nel 2012), ancora un miliardo una tantum dalla riapertura al rimpatrio dei capitali nascosti al fisco con la «voluntary disclosure», quindi interventi ad hoc sui tabacchi o radiofrequenze.
Tutte misure limitate. Eppure rischiano di mancare fino a 15 miliardi per centrare un deficit all’1,8%, perché esse si sovrappongono a tutto il resto: il governo eliminerà l’aumento previsto di Iva e accise da 15 miliardi da anni previsto per legge, ma per ora restano da coprire 8 di questi 15 miliardi di mancate entrate. In più, l’accordo con Bruxelles prevede un’ulteriore stretta da 1,6 miliardi e nel frattempo la crescita quest’anno si fermerà ancora una volta sotto l’1%; la ripresa molto inferiore al previsto fa sì che potrebbero servire altri quattro miliardi per mantenere gli impegni sul deficit del 2017 e per controllare il debito.
Proprio qui, in fondo, è il problema. Il grafico in pagina mostra che l’intera strategia dell’Italia si sia basata dall’inizio su previsioni di ripresa (condivise a suo tempo da Ue e Fmi) che non si sono mai realizzate. La crescita media annua nell’ultimo ventennio è di appena lo 0,5%, dunque impostare ripetutamente i bilanci sull’ipotesi di un dinamismo doppio o triplo dell’economia significa semplicemente privilegiare la speranza sull’esperienza. Il governo però ci contava, anche perché per questo obiettivo ha già speso circa trenta miliardi: dieci per un «bonus» alle famiglie che però ha fatto aumentare i consumi metà di quanto era stato stimato; quattro per cancellare la tassa sulla prima casa, eppure i valori immobiliari continuano a calare; fra i 15 e i 20 miliardi per forti sgravi ai nuovi contratti permanenti, i quali tuttavia oggi risultano persino al di sotto dei minimi del 2014 (appena il 21% del totale).
Senza queste forti spese, il quadro su consumi, immobili e lavoro sarebbe stato ancora peggiore. Certo esse hanno bloccato il bilancio senza potenziare il motore dell’economia. Renzi, nella legge di Stabilità, deve ripartire da qui.
Il Corriere della Sera – 29 agosto 2016