Nostalgia delle anguille. E della carpa, dei cavedani, della trota argentata. «Il livello del lago è troppo basso, l’acqua è torbida, limacciosa, di un verde marrone, non è ancora arrivato il momento di andare a pescare» dice con la faccia da bambino Alessandro Colonia, 86 anni. È tutta la vita che batte questi sentieri di montagna. Conosce ogni ansa e ogni affluente, li recita a memoria come una canzone. «Il San Romedio, il Novella, il Pescara, il Lavazzè. Era uno spettacolo, in primavera. Quando si scioglieva la neve e venivano tutti giù a tuffarsi nel lago. Non c’è mai stata una situazione del genere prima d’ora».
È qui che bisogna venire per capire la guerra dell’acqua. Il Veneto, assetato da mesi di siccità straordinaria, ha chiesto al Trentino e all’Alto Adige di lasciare aperti i bacini montani per rinforzare il corso dei fiumi fino a valle. Ma non c’è più acqua neanche in quota. Ne resta poca sul fondale del lago di Santa Giustina, non più di nove metri di profondità, dove lavorano le turbine della centrale elettrica della Dolomiti Edison. E allora… «Allora abbiamo aiutato finché si è potuto, perché bisogna essere solidali» spiega Mauro Gilmozzi, assessore all’Ambiente della provincia di Trento. «Ma i risultati sono stati pressoché nulli. Pur rilasciando acqua, fino ad arrivare a 80 metri cubi al secondo sotto il ponte di San Lorenzo, il Veneto non ne ha tratto giovamento. Io non so dire dove sia finita quell’acqua. Ma ora non possiamo continuare. Perché anche noi stiamo per scendere sotto i livelli minimi essenziali».
Il segno sul cemento
Un sole estivo illumina il cemento della diga. Il vecchio pescatore indica il segno con la mano. «L’acqua arrivava fino a quel livello, è incredibile», dice Alessandro Colonia. C’è l’ombra scura lasciata sulle pietre, un cambio di vegetazione. Sembra l’impronta di un’altra era. L’invaso è quasi svuotato. Lo si può osservare percorrendo la strada che sale verso Madonna di Campiglio.
È stato un inverno senza neve. E questa è la Val di Non, cioè la valle delle mele. Ovunque: boschi, natura, silenzio e meleti. Quella che forse è la più importante ditta produttrice della zona, proprio qui ha dovuto allungare le suo condotte – lunghi tubi neri – che pescano dal lago e tirano fuori l’acqua che serve ai frutti. Anche quei tubi scoperti, oggi, sono indicativi. Sempre maggiore è il lavoro richiesto al sistema di pompe idrauliche per portare la vita alle piante. Il guardiano della diga si chiama Tiziano Redolfi e sorride con una dolcezza triste: «Solo nel 2003, quando avevamo bucato appositamente l’impianto per montare la nuova piccola centrale elettrica, eravamo arrivati a questo punto». Solo quando la diga era aperta.
Il momento peggiore della crisi idrica si è registrato fra il 25 aprile e il primo maggio. A 240 chilometri in direzione Sud-Est, fra Rosolina e Chioggia, dove l’Adige finisce nel Mar Adriatico, il livello del fiume aveva raggiunto il record negativo: meno 4 metri e 50 di portata. Un fiume spompato, incapace di sgorgare nel mare. Le conseguenze sono state pesanti per l’ecosistema di quella zona. L’acqua marina è rientrata per 12 chilometri nelle campagne, mettendo a rischio le colture. Un’ordinanza ha vietato agli agricoltori di bagnare gli orti per una settimana, nel tentativo di risparmiare e rinforzare il fiume, ma non è bastato. Sull’isola di Albarella l’acqua usciva salata dai rubinetti. Anche a Badia ci sono stati problemi. È stato in quel momento che la Regione Veneto ha chiesto aiuto alle regione più a Nord. Ma nonostante l’impegno del Trentino e dell’Alto Adige, almeno per qualche giorno, la situazione non è migliorata. «È strano quel che è successo», dice adesso Giancarlo Mantovani del consorzio di bonifica Delta del Po e dell’Adige. «Oltre a quella richiesta di aiuto, c’era già un’ordinanza del presidente della regione Zaia che chiedeva una riduzione dei consumi, pari quasi al 50 per cento, ai consorzi del Veronese. Avremmo dovuto vedere arrivare molta più acqua. Ma non è stato così. O è evaporata o qualcuno se l’è bevuta di soppiatto. Non c’è altra spiegazione. Io dico sempre: chi è a monte beve prima». Chi è a valle sta soffrendo, anche se le piogge di questi giorni concedono una piccola tregua. Ma non c’è ottimismo. Al punto che nella zona del delta dell’Adige, in estate, la protezione civile potrebbe bloccare le condotte agricole, quindi la possibilità di irrigare i campi, per garantire l’acqua potabile. Un rimedio estremo.
Senza confini
«La natura non può avere confini regionali» dice ancora Gilmozzi, l’assessore all’Ambiente della Provincia di Trento. «Quando non c’è neve sulle Alpi come quest’anno, tutti pensano subito allo sci. Ma il vero problema è quello delle pianure. Ormai siamo di fronte a crisi cicliche. Siamo tutti consapevoli del cambiamento climatico in corso. Servono riunioni di tutte le autorità di bacino, per prendere decisioni condivise. E serve, al tempo stesso, un uso sempre più responsabile dell’acqua».
Il Trentino non è più così lontano dal Veneto. Nella valle del Pinè, quella dei lamponi e delle fragole, le fontane dei paesi sono rimaste a secco per venti giorni. Il lago delle piazze è ai minimi storici, i cartelli con il divieto di tuffarsi ora sembrano surreali, piantati sulla terra secca. Poco più a Nord, la Cascata del Lupo è poco più di un rivolo in caduta. E proprio ieri, tre agricoltori trentini sono stati condannati a 6 mesi di reclusione, convertiti in 45 mila euro di multa, per aver rubato acqua per i loro frutteti al consorzio di miglioramento fondiario. È qui che il vecchio pescatore Alessandro Colonia non trova più i suoi pesci: «Chissà quanto ci metterà il lago per tornare ad essere cristallino».
Il Trentino non può più permettersi di essere generoso con il Veneto. Ha chiuso i bacini in attesa di altre piogge. Ecco in cosa consiste la guerra dell’acqua. È un anticipo del futuro. Poco risorse sempre più preziose, che bisognerà imparare a condividere da monte a valle.
La Stampa – 7 maggio 2017