L’ Expo che ha cantato le lodi e le meraviglie del cibo made in Italy si è appena chiusa e siamo qui a discutere della profonda crisi che sta martoriando la filiera del latte nazionale. Una crisi che, come dicono le organizzazioni del mondo contadino, ha già fatto chiudere mille stalle e crea problemi agli altri 35 mila allevatori del settore.
Per segnalare questo malessere ieri gli allevatori hanno manifestato a Ospedaletto Lodigiano davanti al centro di distribuzione dei prodotti della multinazionale francese Lactalis, il gruppo che ha comprato una dopo l’altra storiche aziende italiane che rispondono ai nomi di Locatelli, Invernizzi, Galbani e Parmalat. L’azione non ha precedenti non solo per il clamore che ha creato ma anche perché ha individuato una controparte ben visibile, la Lactalis per l’appunto, rea di aver ribassato del 20% il prezzo del latte ritirato dalle stalle a meno di 34 centesimi al litro (in qualche caso lo ha pagato anche 31) costringendo così gli allevatori a lavorare in dumping (al produttore un litro di latte costa dai 38 ai 41 centesimi).
È chiaro che questa guerra al ribasso, che si iscrive nella confusa ricerca di nuovi equilibri di mercato dopo che la Ue ha dichiarato chiusa l’era delle quote latte, non fa bene all’intera filiera agro-alimentare. Toglie valore al made in Italy e ne appiattisce l’immagine. I francesi che volenti o nolenti controllano una parte integrante del prodotto fatto in Italia dovrebbero essere i primi a rendersene conto ma evidentemente non è così. Essendo una multinazionale può evidentemente decidere una linea dura in Italia per avere magari comportamenti più flessibili altrove (Francia). Le organizzazioni contadine in proposito parlano di un attacco alla «sovranità nazionale» e il concetto suona esagerato ma è certo che in qualche maniera la possibilità di arbitrare i prezzi su più mercati si presta a qualche accorgimento.
Il governo italiano, per bocca del ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina, ieri ha fatto giustamente conoscere il suo giudizio incontrando gli allevatori a Lodi e sostenendo che «bisogna pagare il giusto prezzo perché così non si può andare avanti». La situazione, specie in montagna, è ai limiti dell’esasperazione «ed è tempo di assumersi responsabilità all’altezza del valore della filiera agro-alimentare italiana».
La questione del prezzo fissato da Lactalis apre poi riflessioni che potrebbero interessare anche l’autorità Antitrust o quantomeno l’apertura di un’indagine conoscitiva. Siamo infatti in una situazione in cui il leader di mercato fissa un prezzo di riferimento e la stragrande maggioranza degli operatori di fatto lo adotta mettendo le controparti in ginocchio. In qualche maniera si può parlare della formazione di un cartello de facto in un segmento in cui chi produce il latte è già in una posizione negoziale svantaggiata sia perché deve vendere in meno di 24 ore (pena la deperibilità) e sia perché l’offerta in Italia è eccessivamente frantumata con stalle che magari hanno in media dalle 60 alle 100 mucche.
Passati gli anni delle quote e del disagio degli allevatori strumentalizzato a fini politici, il tema del latte torna di attualità e stavolta la protesta dal basso si sviluppa nel senso della modernità (il valore della filiera italiana nel dopo Expo) e non solo come la difesa statica di un piccolo mondo antico. Ma perché l’iniziativa degli stessi allevatori sia coerente il passaggio da affrontare è quello delle aggregazione delle aziende, se rimarranno così piccole non potranno mai avere il peso negoziale che auspicano. E dunque farebbero bene a muoversi prima che sia troppo tardi.
Il Corriere della Sera – 8 novembre 2015