Antonio aveva 56 anni e produceva tubi. Due anni fa l’ultimo brindisi con i tre operai: una commessa pubblica, la banca avrebbe aspettato, i soldi per le more chieste da Equitalia li avrebbe trovati. Poi lo Stato non ha pagato ed è finito tutto. Ha provato a fare il meccanico ad Arsiero: 500 euro al mese in nero. Gli è arrivato lo sfratto. La moglie, con i due figli, si è trasferita dalla madre.
Lui, in cambio del letto, ha fatto il badante della zia. La sera la famiglia si riuniva ai giardini pubblici di Vicenza: un triangolo di pizza, due parole sui ragazzi e sui libri da pagare per l’università. Alla fine Antonio ha ceduto e si è tolto la vita. Non è stata la disperazione, ma la vergogna. La famiglia e gli amici avevano saputo: anche lui era colpevole di povertà.
Nell’Italia della grande crisi, come nel Nordest dei reduci degli “schei”, i fallimenti non si perdonano. O ce la fai, o ti togli di mezzo. La selezione della specie, nell’impero del consumo, è spietata. Seicentoventotto piccoli imprenditori suicidi in tre anni, tra il 2012 e il 2015, altri 193 fra gennaio e ottobre. In testa alla classifica, il Veneto. Non sono il fisco, lo Stato e la burocrazia, ad essere sotto accusa, non i grandi e i piccoli evasori che si appellano all’impresentabilità collettiva per giustificare la disonestà individuale. Questa sera nel cinema Roma di Vicenza si parla di vulnerabilità personale e di indifferenza istituzionale, della mediocrità che ha conquistato i poteri, di un’esistenza precaria diventata cronica e generale. È una testimonianza, ma pure un omaggio ai caduti anonimi del Paese che non ce la fa. Gente umile e onesta, semplice e normale, spesso anziana, i protagonisti dell’esaurito modello Nordest affondato nei debiti. Inaccettabile, specie nella terra in cui il lavoro e il conto in banca sono il cuore di ogni persona.
Ci sono anche i figli di Mario, falegname di Valdagno. Lui è stato ucciso dalla fine dell’amore con la moglie. C’erano l’assegno di mantenimento, un nuovo affitto, altre bollette, le rate per i macchinari, i contributi dei dipendenti. «Ci ha chiesto scusa — dicono — aveva un’assicurazione sulla vita, l’ha fatto per noi». La sala è gremita per l’anteprima di Cronaca di una passione, l’ultimo film di Fabrizio Cattani, con Vittorio Viviani e Valeria Ciangottini. Presenti gli “Angeli della Finanza” e l’ex magistrato Piero Calabrò, presidente dell’Istituto Sdl. Dopo Maternity blues, dedicato alle mamme in carcere per infanticidio, l’opera è già un caso. La prima ragione è l’argomento: l’organizzazione collettiva che pretende la vita di chi non sta al passo con le regole della finanza pubblica. La seconda è la formula: un film autoprodotto da 70mila euro, negato alle grandi sale e affidato a quelle piccole, purché accompagnino la proiezione con dibattiti animati da associazioni e volontari, pronti ad aiutare concretamente le famiglie dei caduti causa crisi. La tournée, dopo Vicenza e Verona, lascerà il fronte Veneto per toccare tutti i campi di battaglia della nazione, a partire dalla Campania.
«Il welfare — dice Fabrizio Cattani — da statale si è ridotto a famigliare. Ma in questo modo chi per necessità cade nelle mani delle sanzioni, viene privato anche della dignità, la pena è l’umiliazione inflitta dalle persone care. A un uomo sul lastrico un funzionario pubblico ha suggerito di fingersi pazzo per ottenere un posto riservato ai disabili ».
Non c’è indignazione, nel multisala. Piuttosto commozione e rimpianto. Ci sono artigiani e piccoli commercianti, industriali e professionisti, i famigliari di chi si è arreso. Conoscono la storia. Anna e Marco, una trattoria, una fabbrica che chiude e i coperti che non sono più quelli di prima. Il debito verso Equitalia schizza a 30mila euro, poi a 50. La loro passione, ma si potrebbe dire il calvario, o la condanna, è questa: il quartiere pignorato, il locale chiuso, l’affi-damento a una comunità che dopo quarant’anni divide anche il loro letto matrimoniale.
«Ed è sempre quando non servi più — dice Cattani — che la solidarietà salta. Non giudico, ma prendo atto che affetti, buone intenzioni, sostegno e generosità, come il buon senso e il supporto delle istituzioni, scoprono improvvisamente di essere solo parole, o propaganda. Se una comunità scompare nell’attimo cruciale, la sua esistenza è inutile. Non parlo degli evasori, ma degli onesti: nemmeno lo Stato può pignorare la vita». I protagonisti finiscono con i mobili ammassati in un garage preso in affitto. Dormono su un materasso steso davanti ai fornelli, prima di essere cacciati “per esigenze igieniche”. Passano la fine dell’anno in albergo. Anna prende le pillole e resta a letto. Marco raggiunge la spiaggia e punta verso le onde.
«Non ci spaventano i sacrifici — dice Tiziana — a ucciderci sono i giudizi e il confronto. Dopo 35 anni di fatiche ti svegli e ti convincono che non vali più niente, che hai rubato ciò che non hai mai avuto». Aveva un lavasecco sotto Asiago, adesso è ospite della Caritas. È notte. Finisce di parlare e in sala nessuno fiata. Parte un applauso e basta. Forse proprio il Nordest vuol dire al resto d’Italia che si è vivi anche senza i soldi.
Repubblica – 8 novembre 2016