Cresce il costo degli alimenti. Scarseggia il suolo coltivabile. Gli Ogm sono al palo. Ma l’agrotech ha un asso nella manica. Per dar da mangiare a un pianeta sovraffollato
Entro il 2050 saremo 9 miliardi. Tutti da sfamare. Ma non con un pugno di riso: buona parte del mondo che se la cavava con pochi cereali, i grandi paesi emergenti, Cina, India e Brasile, oggi chiedono una tavola come la nostra, qualità e maggiore varietà; e il consumo di carne in Cina è più che raddoppiato in vent’anni arrivando agli attuali 50 chili l’anno prò capite. Ma mentre sempre più persone si aspettano pasti sempre più salubri, proteici e gustosi, il 2011 si è aperto con la seconda crisi del cibo in pochi anni (dopo quella del 20072008): i prezzi hanno superato i picchi del 2008 e la Fao stima che vivano sul pianeta almeno un miliardo di persone denutrite mentre il 30 per cento delle risorse alimentari diventa spazzatura. La faccenda ha conseguenze politiche così drammatiche che sia il G8 che il G20 l’hanno definita “top priority” nella loro agenda. E la Fondazione Gates, la charity più generosa che fino a oggi ha finanziato progetti sanitari per miliardi di dollari, ha annunciato di voler inserire la ricerca di soluzioni contro la fame tra le sue mission. E del tutto evidente che non sarà possibile nutrire 9 miliardi di persone se non si mette a fuoco una «nuova visione dell’agricoltura», come hanno indicato le personalità invitate al World Economie Forum di Davos. E se è ovvio che saranno la politica e l’economia a menare le danze, è del tutto evidente che quella che si gioca oggi è anche una formidabile sfida scientifica: aumentare del 60-70 per cento la produzione alimentare senza deforestare, riducendo le emissioni di gas serra e adattando l’agricoltura ai cambiamenti climatici in atto, che si traducono in inondazioni, siccità e un potenziale aumento di malattie delle piante. Quella che oggi si chiede a genetisti, agronomi e biotecnologi è molto di più di una “rivoluzione verde”: l’età dell’oro dell’agricoltura scientifica quando la produzione agricola del Sud del mondo è quasi raddoppiata, migliorando la qualità delle sementi e dell’irrigazione e favorendo un uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi. Oggi, le risorse idriche scarseggiano o sono imprevedibili, in relazione ai cambiamenti climatici, e l’uso di pesticidi e fertilizzanti ha devastato molti terreni in ogni parte del mondo. L’obiettivo allora è duplice: aumentare la produzione di cibo ma, insieme, preservare gli ecosistemi destinati all’agricoltura per mantenerli nel tempo. Un’impresa, come s’è detto, formidabile. Ma possibile grazie alla forte discontinuità segnata anche nell’agricoltura scientifica dalla decodifica di interi genomi vegetali e animali. E dall’ingresso delle biotecnologie nelle aziende agricole, a tutti i livelli. LA SELEZIONE DEL PIÙ BUONO La possibilità di decodificare interi genomi di animali e piante, a costi sempre più bassi e in tempi più rapidi, dà informazioni preziose su come essi si riproducono, si difendono e si adattano all’ambiente. Non è solo una questione di Dna: negli ultimi dieci anni si sono accumulate una quantità di conoscenze sulla fisiologia, la biochimica, e il metabolismo di piante o animali. Sfruttare queste conoscenze significa migliorare le produzioni. Ma l’opportunità, per quanto straordinaria, resta ancora soltanto tale, basata su un manipolo di studi scientifici che devono oggi, immaginarsi di diventare tecniche agricole praticabili nei campi di mezzo mondo. Mezzo, appunto: perché alle nostre latitudini l’agrotech è già una realtà ben tangibile nelle mani di imprenditori e agricoltori. Con buona pace dei nostalgici del “contadino di una volta”. Ora, però, tocca al resto del mondo. Dove la sfida è ben più ostica. Prendiamo il riso. In Cina, il paese dove c’è la maggiore diversità biologica per questa pianta, ne sono state sequenziate ben 517 varietà, afferma un lavoro pubblicato a ottobre su “Nature Genetics”. «Dal confronto tra le sequenze», spiega Davide Ederle, del Parco Tecnologico di Lodi, polo di eccellenza per le biotecnologie, «si è capito che differenza c’è tra l’una e l’altra varietà, e quindi quali tratti di Dna esprimono le caratteristiche più interessanti in fase di produzione. In pratica, oggi sappiamo in che punti del genoma sono localizzati i 14 caratteri agronomici più rilevanti del riso». Seguendo queste caratteristiche genetiche, si possono fare incroci mirati di diverse varietà, selezionando quelle più interessanti, per migliorare la produzione e la capacità delle colture di adattarsi all’ambiente. Così si potranno trovare varietà capaci di abbassare i prezzi e sfamare miliardi di persone. DAL RISO AL LATTE Ma, attenzione, non stiamo parlando, in questo caso, di Ogm: la genomica infatti usa le informazioni contenute nelle sequenze del Dna non per trasferire geni da una pianta all’altra (e modificare geneticamente il vegetale ), ma per indirizzare in modo più preciso le tecniche tradizionali di incrocio e di miglioramento genetico. In sintesi: i tratti di Dna dove si trovano le differenze tra una varietà e un’altra possono essere utilizzati come marcatori, molto utili per analizzare velocemente la progenie di un incrocio, vedere se contiene la sequenza giusta e quindi se ha il carattere desiderato. A Lodi, questa tecnologia è stata utilizzata proprio sul riso, quello italiano. «Il 2008 è stato un brutto anno per il nostro riso,» spiega ancora Ederle: « Il 40 per cento della produzione del Nord Italia è stata rovinata da un fungo, il brusone. I nostri genetisti hanno studiato 90 varietà locali e identi= ficato 12 geni che rendono le piante resiI stenti al fungo. Adesso, stiamo lavorando in campo, incrociando tra loro le vaso rietà più resistenti». Qualcosa di simile si fa anche negli allevamenti di bovini da latte. Finora la selezione è stata orientata alla produttività: la frisona, per esempio, è arrivata a dare, in media, anche 60 litri di latte al giorno, senza però tenere in conto altri fattori del benessere animale, come la fertilità, la longevità. Il progetto Prozoo, promosso dallo stesso Parco di Lodi, a tal fine ha prodotto un chip capace di leggere fino a 54 mila piccole differenze nel Dna di migliaia di animali messi a confronto per selezionare quelli più adatti alla riproduzione. L’obiettivo non è più quello di selezionare animali capaci di produrre enormi quantità di latte, ma quello di migliorare il ciclo intero di vita del bovino, garantendone la produttività a lungo termine. Ma se questo ha un senso nei paesi delle quote-latte, le cose cambiano dove il problema è l’opposto e anche piccoli incrementi di produzione possono fare la differenza. Qui cambia l’obiettivo, ma non la tecnologia di selezione degli animali. «In un nostro progetto di cooperazione in Perù abbiamo aumentato la produzione di latte di una razza autoctona da 1,5 litri al giorno a 10, utilizzando il seme di razze italiane non particolarmente produttive, ma molto rustiche», annota Ederle: «Così abbiamo garantito l’autosufficienza nella produzione lattiero-casearia per un’intera comunità e lo sviluppo di nuove attività, come la produzione di formaggio». L’OGM HA FATTO FLOP L’obiettivo di queste innovazioni è quello di migliorare colture e razze animali senza mettere le mani del loro genoma. Insomma, senza fare ricorso alla modificazione genetica. Infatti, se da un lato da anni i grandi sostenitori di questa tecnologia ritengono che solo gli Ogm possono salvare il mondo dalla fame, dall’altro sul mercato, a oggi, gli organismi geneticamente modificati sono davvero pochi e quelli presenti sono più interessanti dal punto di vista economico che non sotto il profilo nutrizionale. E il fatto che l’opinione pubblica diffidi, non è un ostacolo indifferente. Perché ha fatto sì che i controlli sui prodotti Gm siano molto serrati. Risultato: alcuni degli Ogm potenzialmente interessanti sotto il profilo alimentare sono ancora in fase di collaudo. Il famoso riso Golden, per esempio, arricchito di vitamina A, non viene ancora coltivato. «Ci sono voluti 11 anni per avere l’approvazione», spiega Piero Morandini, fisiologo vegetale all’Università di Milano: «Ma l’iter non è ancora completo. La regolamentazione sugli Ogm è talmente stringente e il processo, di conseguenza, così costoso che ben pochi prodotti riescono effettivamente ad arrivare al mercato. E per un ente pubblico è quasi impossibile farcela». Questo è accaduto per la cassava, una delle fonti di carboidrati più usate in Africa, povera di proteine: inserendo geni del fagiolo e del mais, i ricercatori del Danforth Plant Science Center di St. Louis hanno ottenuto una varietà dieci volte più ricca di proteine, ma per arrivare al mercato hanno dovuto fare un accordo con la multinazionale Dow AgroScience. In cerca di un produttore miliardario è, invece, un’altra scoperta affascinante: l’hanno fatta i ricercatori dell’Università del Texas che hanno reso commestibile il cotone grazie all’eliminazione di una sostanza tossica dai semi. «Potrebbe costituire una fonte di proteina per molta gente,» chiosa Morandini. Sarà per le difficoltà di accesso al mercato, sarà per il carattere dei prodotti, fatto sta, però, che il potenziale della tecnologia Ogm sembra ancora tutto da sfruttare. «Gli organismi prodotti finora sono ancora troppo semplici e di scarso interesse agronomico», riflette Enrico Dainese, biochimico alla facoltà di Agraria dell’Università di Teramo: «È più interessante lavorare per potenziare i meccanismi interni di una pianta invece che introdurre geni estranei. E oggi siamo in grado di agire direttamente sul sistema di difesa e sulla salubrità della pianta. Rafforzandola senza alterarne la composizione genetica». Dainese a Teramo, ad esempio, lavora proprio a una tecnica di questo genere, studiando la lipossigenasi, per capire come questa proteina che fa parte del sistema di difesa della pianta intervenga a difenderla dai patogeni, per poi agire su di essa e aumentare le capacità di resistenza naturale delle piante. Insomma, è vero che l’opposizione dell’opinione pubblica alle manipolazioni genetiche ha indotto gli scienziati a cercare altre vie, capaci di rispondere alla richiesta di ecocompatibilità delle innovazioni in agricoltura. Ma chi pensa si tratti di un’esigenza tutta occidentale, politica o ideologica, si sbaglia. Il flop del Gm è legato alla difficoltà di mettere le mani su varietà così interessanti da imporsi al mercato e apparire come la soluzione al rebus del Terzo millennio: sfamare 9 miliardi di persone senza sfibrare il pianeta. La buona notizia, tuttavia, è che la prospettiva non è più solo Gm. Gli organismi geneticamente modificati sono un’opzione, se l’industria saprà sfruttarla è tutto da vedere. Ma di certo la genomica ha messo in campo altre strade.
L’espresso – 18 marzo 2011