di Stefano Folli*. Che fine farà la manovra in Parlamento? Su un punto sembrano tutti d’accordo: i saldi non si possono toccare. 45,5 miliardi di euro: obiettivo su cui l’Europa ha dato il suo giudizio positivo, confermato ieri dal binomio Sarkozy-Merkel.
Ma per il resto le richieste di correttivi sono vibranti e vengono dall’interno della maggioranza prima ancora che dalle opposizioni. In fondo non ha torto Bersani quando chiosa: «la manovra è già figlia di nessuno».
I frondisti (Crosetto e Martino per citare due nomi) indicano nelle tasse la discriminante. Ritengono che la rinuncia a un intervento radicale sulle pensioni d’anzianità unita all’aumento verticale dell’Irpef a carico del ceto medio e medio-alto sia destinato a provocare un doppio sconquasso. Depressivo sulle borse (e ieri il FtseMib era davvero poco incoraggiante). Rovinoso sul consenso elettorale: i titolari dei redditi tartassati sono stati per anni tra i più fedeli sostenitori di Berlusconi. Per cui il malessere del Pdl cresce e non va sottovalutato. In Parlamento, è vero, c’è sempre l’arma della ‘fiducia’, tuttavia è a doppio taglio se serve a soffocare i malumori interni anziché a disinnescare l’ostruzionismo dell’opposizione.
Nei giorni scorsi il premier aveva dato l’idea di saper controllare la situazione. Si era tenuto in stretto contatto con il governatore Draghi e aveva cercato il puntello del Quirinale.
In nome della stabilità, e con il rischio di un collasso nei giorni drammarici della crisi dell’euro, aveva ottenuto il sostegno richiesto. Egli stesso si era fatto forza della lettera della Bce per consolidarsi come l’uomo che non ha alternative.
Al dunque la manovra è stata varata. Ma sembra fatta apposta per mettere Berlusconi in contraddizione con la sua storia personale e con il suo elettorato. Chi è il responsabile di questo slittamento? Forse Tremonti, che avrebbe allungato a tre anni, invece di due, l’addizionale Irpef? E’ curioso che il presidente del Consiglio dica: «me ne sono accorto a cose fatte, con i ministri avevamo deciso per due anni». Se fosse così, l’episodio sarebbe grave.
Ma a sentire le affermazioni di Umberto Bossi a Ponte di Legno si capisce dov’è l’origine politica delle ambiguità in cui si dibatte la coalizione. Gli insulti a Brunetta e poi persino alla Montalcini, l’improvviso ritorno degli slogan secessionisti, quel rivendicare che la Lega ha impedito di manomettere «le pensioni dei poveracci»… tutto indica che si stia rispolverando il populismo per coprire una difficoltà politica. Ma il Carroccio è anche il partito che condiziona Palazzo Chigi e di fatto impone a Berlusconi scelte che questi preferirebbe evitare. Del resto era Bossi, pochi giorni fa, a insinuare che la lettera della Bce era stata «scritta a Roma», cioè dalla Banca d’Italia, proprio mentre il premier si affidava a Draghi.
Si direbbe che il rapporto fra il leader leghista e Tremonti sia più che mai solido. Al contrario, il tentativo di Berlusconi di porsi, anche agli occhi degli europei, come il protagonista del risanamento cozza con le incongruenze della manovra. Incongruenze di tipo economico, sociale, ma anche politico. Il premier è costretto a dispiacere al suo elettorato, senza nemmeno esser sicuro del risultato. E non sarà una passeggiata a Porto Rotondo, con i relativi applausi, a ridargli sicurezza
Ilsole24ore.com – 17 agosto 2011